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giovedì 1 Giugno 2023
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    Sofia, Lucrezia e gli altri angeli volati in cielo

    Ho atteso qualche giorno per scrivere questa rubrica perchè, come tutti, ho avuto bisogno di un po’ di tempo per metabolizzare le terribili notizie di questo periodo che, nella nostra regione, ci hanno colpito da vicino.

     

    Si sa, con l’informazione che corre sulla rete, raggiungendoci nei luoghi della nostra intimità, a qualsiasi ora del giorno e della notte, non si può più scappare dal dolore. O si è freddi, distanti e indifferenti, o si è coinvolti, addolorati e avvolti dal lutto che, pur non toccando persone a noi vicine, tocca persone che non dovrebbero trovarsi sui siti di informazione per la loro morte.

     

    Prima le splendide ragazze che viaggiavano su quel maledetto pullman in Spagna, poi la piccolina di Reggello, poi ancora le stragi di Bruxelles (fatti, questi ultimi, sui quali tornerò con calma perchè necessitano di attente e approfondite riflessioni).

     

    Così, un lutto privato e dolorosissimo, come solo quello di un genitore che deve dire addio ad una figlia può essere, diventa collettivo: Sofia, Lucrezia e tutte le altre diventano la figlia di tutti noi.

     

    La sorella, l’amica, la fidanzata, la collega di studi, di tutti noi. E quei sorrisi luminosi di volti che, inconsapevoli, ci guardano dalle foto pubblicate in rete o sui giornali, sono come lame taglienti che affondano nel cuore.

     

    Credo che non ci sia modo di consolare i genitori di queste creature, almeno non ancora, ma sono anche certa che l’abbraccio collettivo, fisico o virtuale che sia, li possa aiutare a far fronte al dolore di questi giorni così difficili e terribili.

     

    Si dice che il lutto, per essere superato, debba passare da cinque fasi, non per forza nell’ordine previsto dalla Kübler-Ross, ma generalmente sempre presenti. Si tratta della fase della negazione o del rifiuto (non è possibile, non può essere accaduto, non ci credo), quella della rabbia (perchè proprio a me/noi?), la fase della contrattazione o del patteggiamento (una sorta di spiegazione che ci aiuta ad uscire dalla rabbia), quella della depressione (la fase generalmente più lunga e forse anche la più difficile da superare, anche perchè può ripresentarsi) e, infine, quella dell’accettazione.

     

    In questo tipo di lutto, però, ci sono delle difficoltà in più che non si possono negare nè ignorare. Basti pensare al fatto che esiste una parola per definire chi ha perso i genitori, orfano, e per chi ha perso il coniuge, vedovo, ma non per chi ha perso un figlio: è un’eventualità che va contro natura, che non si riesce ad accettare, a cui non si riesce neanche a dare un nome.

     

    Come se, negandogli il diritto ad un nome, si riuscisse a negargli il diritto di esistere, cercando così di esorcizzare la paura.

     

    Questi sono lutti, dicevo, che coinvolgono anche la collettività: alla base di questo coinvolgimento vi è una proiezione empatica dei propri sentimenti. La morte, più di ogni altro evento, ci rende capace di mettersi nei panni degli altri, di chiedersi “e se fosse toccato a me?”, di provare un dolore sincero per persone che neanche conosciamo, di interrogarsi sul senso della vita.

     

    Tutto ciò ci può portare, allora, ad una riflessione sulla dimensione temporale, su quella sociale e in ultimo, ma non per importanza, sul senso della vita.

     

    Il non lasciar scivolare via il tempo, cercando di vivere il presente in modo appagante e costruttivo “qui e ora”, l’unico momento possibile. Il passato non c’è più, e non si può cambiare, mentre il futuro non lo conosciamo.

     

    Il dare valore al senso di comunità e di condivisione, all’aiuto reciproco, alla risonanza dei sentimenti e delle emozioni che, anche se sembra retorica, sono l’unica vera espressione della nostra natura umana.

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

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