TAVARNUZZE (IMPRUNETA) – Quando pensiamo a una parrocchia, l’immagine che affiora è spesso quella di un cuore pulsante, il centro nevralgico di un paese dove le generazioni si incontrano, le tradizioni si rinnovano e la comunità si sente, appunto, “comunità”.
È un’immagine rassicurante, quasi da cartolina, che però si scontra con la realtà complessa di molti centri abitati moderni.
Questa è ciò che succede a Tavarnuzze e nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù, il cui parrocco, don Andrè Jacques Mambuene Yabu, presente in questa comunità dal 2007 in varie vesti ci racconta la sua esperienza quasi ventennale in questo paese, spesso definito “dormitorio”. E ci rivela verità inaspettate sulle sfide e le speranze del fare comunità oggi.
Il suo racconto non è un lamento, ma una lucida analisi che ci costringe a ripensare le nostre idee su cosa significhi appartenere a un luogo.
“Mi chiamo Andrè Jacques MambueneYabu – si presenta – sono originario del Congo, Kinshasa, e sono nato l’8 maggio 1963. Mi sono fatto ordinare prete in Congo e mi sono trasferito a Roma per studiare Missiologia presso l’Università Pontificia Urbaniana. Arrivato a Firenze nel 2005, prima di avvicinarmi a Tavarnuzze nel 2007, ho prestato servizio per qualche mese come vice parroco a Santa Maria a Cintoia, e successivamente a Santo Stefano alla Pieve di Campi Bisenzio”.
Ci teneva molto a presentarsi don Andrè, e dopo i primi convenevoli, dalle sue parole emergono riflessioni chiave che vanno ben oltre i confini di Tavarnuzze, ma che affondano le loro radici in una crisi identitaria più ampia.
La prima e più grande difficoltà identificata da don Andrè è la natura stessa di Tavarnuzze: “Questa è sempre stata una comunità “difficile”, anche i miei predecessori l’hanno sempre riscontrato. Tavarnuzze è spesso definita un “dormitorio”. Molti dei 6.000 residenti lavorano a Firenze e, grazie alla facilità di accesso con l’autobus, la città è a portata di mano”.
“Le attività, le feste e gli interessi – prosegue – sono orientati verso la grande città. Il risultato è che la pratica religiosa è molto scarsa rispetto ai numeri che avremmo a disposizione. Consideriamo poi che il paese originale, il “borgo”, si trovava in alto, attorno alla vecchia chiesa di Montebuoni. La Tavarnuzze moderna, quella in basso, è uno sviluppo più recente, abitato da chi gravita su Firenze”.
“Questa frattura – riflette – geografica e storica, svuota il paese della sua identità locale. La sfida, quindi, non è solo riempire una chiesa, ma ridefinire il concetto stesso di “parrocchia” visto che la popolazione geografica non coincide con quella sociale e affettiva.”
Una battaglia in salita (in senso letterale) visto che la chiesa è fisicamente ai margini del paese, nascosta e poco visibile, un controsenso se pensiamo alla centralità e allo scopo della Chiesa (quella con la C maiuscola) nei secoli.

“La nostra chiesa non si trova nella piazza principale del paese – conferma don Andrè – ma è un po’ all’angolino, in cima. Direi proprio che la nostra chiesa non si trova, anche i corrieri fanno fatica quando c’è un pacco da consegnare e salgono fino a Impruneta per poi tornare giù!”.
“La gente si ferma alla casa del popolo, alla Pubblica Assistenza – continua il sacerdote – con cui noi abbiamo rapporti cordiali di collaborazione. Ma rappresentano una proposta laica per la comunità, non spirituale, sono cose diverse. Poi, per raggiungere la chiesa del Sacro Cuore, bisogna fare una salita, anche abbastanza ripida; non ci sono molti parcheggi e questa è un’ulteriore barriera fisica per le persone anziane, oltre a scoraggiare i curiosi e i passanti occasionali. A questo si aggiunge la mancanza di un vero oratorio con campi da gioco, uno spazio che potrebbe trasformare la parrocchia in un polo di aggregazione naturale per giovani e famiglie, al di là delle funzioni religiose”.
I giovani, un tema centrale per le parrocchie e la Chiesa: qual è, chiediamo a don Andrè, il vostro approccio al tema e cosa fate per i ragazzi e le ragazze di Tavarnuzze?
“Il mio più grande successo – risponde subito – e ne parlo con orgoglio, è stato la creazione, dal nulla, di un Gruppo Giovani: è stato il primo obiettivo che mi sono posto arrivando a Tavarnuzze. Partendo dai ragazzi delle medie, siamo arrivati a coinvolgerne oltre 80, che oggi, universitari e lavoratori, sono ancora attivi”.
“Di fronte al problema della mancanza di spazi – ricorda – ho compiuto un gesto di fiducia radicale. Abbiamo consegnato loro l’edificio della ex scuola elementare gestito dalla suore, che era accanto alla parrocchia, per farne il loro punto di ritrovo, una sorta di “oratorio autogestito” Qui, però, emerge un paradosso. Nonostante questo nucleo forte, a cui è stato dato un mandato così importante, si manifesta un conflitto generazionale. Gli adulti aspettano che i ragazzi facciano e, viceversa, i ragazzi, pur essendo perfettamente in grado di organizzare eventi di successo per loro stessi, non sempre riescono a trasferire questa energia a iniziative per l’intera comunità. È un successo che, anziché unire, a volte evidenzia un divario”.
Sembra veramente una comunità articolata, ma la fede è speranza, qual è la sua di speranza per il futuro della parrocchia di Tavarnuzze?
“Investire in chi resta – afferma don Andrè- nonostante il calo dei bambini che fanno catechismo, l’effetto “dormitorio” e le complesse dinamiche generazionali, non mi scoraggio. La mia speranza e le mie energie sono tutte dedicate proprio a quel gruppo di giovani che ho visto nascere e crescere, e in cui ho investito concretamente. Sono convinto che siano loro la chiave per il rinnovamento. Anche se ora il loro numero si è assestato su un nucleo solido di una quarantina di giovani, rappresentano una promessa per il domani. Il futuro è tra le loro mani perché saranno loro a trovare nuovi modi per edificare la comunità. È una speranza paziente ma incrollabile, sono convinto che più in là qualcosa si farà.”
Le parole e lo sguardo lucido di don Andrè riflettono una trasformazione sociale molto più ampia.
Ci mostrano che la comunità, soprattutto quella dei fedeli, non è più un dato di fatto, legato alla semplice residenza, ma qualcosa che deve essere attivamente e creativamente costruito, lottando contro forze potenti di frammentazione e distrazione.
La sua esperienza ci lascia con una domanda fondamentale, che riguarda tutti noi. In un mondo con infiniti punti di interesse, come possiamo ritrovare e ricostruire un senso di appartenenza condiviso nel luogo in cui viviamo?

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