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sabato 20 Aprile 2024
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    “Eravamo trattati come bestie”: Marcello Vanchetti ci racconta la sua prigionia

    Grassinese: la guerra, il tradimento, la paura del campo di concentramento. Poi il ritorno a casa

    GRASSINA (BAGNO A RIPOLI) – “Il campo era grandissimo tutto recintato con il filo spinato, l’interprete ci diceva di non toccare perché c’era l’alta tensione. Eravamo di tutte le nazionalità: russi, francesi, italiani. Le baracche servivano per dormitorio ai deportati e prigionieri. Durante il giorno ci facevano lavorare come bestie. Un posto infame”.

     

    Marcello Vanchetti era uno di loro. Ultranovantenne, con uno spirito da leone, ci accoglie in casa sua, a Grassina, e non senza emozione comincia a raccontare. Partendo dall'inizio.

     

    “Quando scoppiò la seconda guerra mondiale – dice Marcello – venni arruolato nei carabinieri e mandato in Austria. Ci tradirono a Roma e ci fecero prigionieri portandoci in Austria. Nel settembre del’43, durante la confusione delle cose che stavano cambiando, ci portarono a combattere a Porta San Paolo. Di lì ne uscimmo sconfitti e in seguito, a tradimento, invece di rientrare in caserma ci portarono in Austria. Prigionieri".

     

    Marcello era il secondo figlio di sei fratelli, nato nel 1924 in una famiglia di contadini a Lappeggi. Quando il secondo conflitto mondiale scoppiò, a lui e a tanti ragazzi della sua classe arrivò la chiamata alle armi.

     

    Nella famiglia era già il terzo figlio che sarebbe partito per il fronte, gli altri due erano rispettivamente in Africa e in Corsica, nelle due campagne fallimentari del Duce.

     

    Le parole prendono il sopravvento. Veloci, quasi bisognose di uscire: “Dopo la battaglia di Porta San Paolo ci fecero rientrare. I nostri ufficiali ci dissero di depositare le armi che ci avrebbero riportato ognuno a casa sua. Invece ci portarono verso la stazione ferroviaria e ci ingabbiarono sui vagoni bestiame. Dove saremmo andati non si sapeva, avevamo fame e sete”.

     

    Dopo un attimo di esitazione prosegue con calma: “Dopo Bologna il treno si fermò ad una stazione e la gente del posto ci portava l’acqua con i secchi, come agli animali, sorvegliati dai militari con le baionette puntate. Dopo il treno proseguì per Udine, poi a Tarvisio si entrò in Austria. Fino al campo di concentramento di Reichenau, a Innsbruck”.

     

    Anche il cielo grigio, con la sua pioggia, sembra voler commemorare il sacrificio di tutti i ragazzi italiani che persero la vita in quel  luogo, anticamera dell’inferno dove la dignità umana veniva cancellata.

     

    Mai dimenticare: “Non ricordo più esattamente quanto restai, avevamo una gran paura. Poi arrivarono le armate americane e russe e noi riuscimmo a scappare”.

     

    Nelle sue parole la voglia di riscatto di chi ce l’ha fatta: “Riuscii a tornare a casa a piedi e con passaggi di fortuna, attraversando l’Italia in pieno sbando".

     

    Le parole si spengono piano piano, gli occhi lucidi a cercare quelli della moglie Marisa. Che lo ascolta.

     

    Qualche anno fa Marcello è stato riconosciuto da parte dello Stato italiano come reduce di guerra, una bella medaglia ed una cerimonia solenne tenutasi in piazza della Signoria a Firenze con l’allora sindaco Matteo Renzi

     

    Appena tre generazioni sono passate dagli anni maledetti di cui si parla, possiamo ancora vedere seduti  sopra le ginocchia di questi nonni i nostri figli. Ricordi, immagini e le ultime testimonianze che a distanza di anni sono ancora vive negli occhi stanchi degli ultimi reduci che le hanno vissute.

     

    Le nuove generazioni invece riconoscono a lui e a quelli come lui di aver contribuito a scrivere la storia sacrificando gli anni migliori della loro vita, consegnandoci  un paese oggi libero. Da salvaguardare contro ogni forma di razzismo e xenofobia.

    di Silvia Rabatti

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

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