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giovedì 25 Aprile 2024
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    La testimonianza da Greve: “Io e il Covid-19. Dal casco per l’ossigeno alla morte che arriva in stanza”

    Claudio ha 65 anni. Tutto inizia il 12 ottobre. Passa per tampone, ricovero, ventilazione forzata, il vicino di letto che purtroppo non ce la fa. E il ritorno a casa: debilitato e ferito anche nella mente

    GREVE IN CHIANTI – Claudio Conti ha 65 anni, vive a Greve in Chianti. E quella che racconta al Gazzettino del Chianti è la sua esperienza legata al Covid-19.

    Senza alcun istinto “pedagogico”, ma solo con la volontĂ  di renderla nota al maggior numero possibile di persone.

    Che in questo modo, pur senza generalizzare (ognuno ha esperienze diverse, nella vita come nelle malattie) possano leggere il racconto diretto di un passaggio di vita fatto di paura, malattia, immagini che rimarranno impresse per sempre nella sua mente.

    Un’esperienza che inizia da un presupposto: “Le procedure, così come i protocolli da seguire, sono delle norme di comportamento che ognuno segue, nella speranza di essersi comportati correttamente”.

    Insomma, Claudio le misure di prevenzione le attua. Ma l’infezione arriva lo stesso. E con questa inizia un percorso personale per niente facile.

    “Il 12 ottobre – inizia nel suo racconto – mi trovo febbricitante. Con dolori, tosse e con le papille gustative azzerate”.

    “Dopo cinque giorni di malessere – sono ancora parole di Claudio – prenoto un tampone, che svolgo il 19 ottobre. Il 21 ottobre mi arriva l’esito: risulto positivo”.

    Neanche il tempo di metabolizzare la notizia, e Claudio capisce che non sarĂ  fra quelli che possono viversi malattia e convalescenza fra le mura di casa.

    “Le mie condizioni respiratorie peggiorano repentinamente – ci spiega – e il 22 ottobre sono al pronto soccorso dell’ospedale Santa Maria Annunziata di Ponte a Niccheri”.

    “Vengo immediatamente trattato con ossigeno e casco per la ventilazione forzata – aggiunge – una sorta di terapia intensiva senza intubazione”.

    Claudio ci racconta che “la terapia di ossigeno con maschera e cortisone viene applicata per altri sei giorni. Il 2 novembre vengo trasferito al reparto subintensivo di malattie infettive, diciamo dove si dovrebbe migliorare. Ma non è così”.

    “Mi avevano paventato le dimissioni per l’8 novembre – la mente va a ritroso nel tempo, ripescando paure e sensazioni – La notte in ospedale è un qualcosa che non si dimentica facilmente”.

    Fino a trovarsi con la morte in camera: “Purtroppo l’8 mattina viene a mancare il paziente del letto di fronte al mio: non potrò mai piĂą dimenticare il corpo senza vita, a bocca aperta per asfissia”.

    Infine, la liberazione. Che però non cancella tutto quanto è stato vissuto: “Dopo 17 giorni te ne torni a casa, debilitato, spossato. Con delle ferite nella psiche che non sono certo se potranno mai guarire”.

    @RIPRODUZIONE RISERVATA

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