GREVE IN CHIANTI – In poco più di un anno don Flavio Rossetti, arrivato a Greve nella primavera del 2014, si è fatto apprezzare e rispettare per il suo modo di stare nella comunità e di vivere la fede a stretto contatto con la realtà quotidiana, con i suoi problemi e le sue opportunità.
Lo ha fatto anche con prese di posizione nette, come il richiamo, lanciato dall'altare alcune settimane fa, al dovere dell'accoglienza (in questo caso dei migranti) come fondamento non negoziabile di una comunità.
Una questione che, racconta lui stesso, a Greve stava sfociando nella più totale disinformazione, rischiando di favorire un clima di non accoglienza.
Don Flavio è soprattutto il prete del dialogo, che ha costruito un rapporto di sintonia e aiuto reciproco con la comunità islamica di Greve, convinto che oltre i confini della parrocchia e della religiosità c'è "una casa in cui dobbiamo vivere tutti assieme senza distinzione fra chi è cattolico, ortodosso, musulmano. Il nostro dio è lo stesso e mi piacerebbe che partissimo dall'accoglienza della bellezza di ciascuno di noi, quando invece spesso c'è chiusura a confrontarsi".
Chi è don Flavio?
"Sono nato a Barbariga, un paesino di circa 1.500 abitanti della bassa bresciana, dove tutti si conoscono e ancora oggi si entra nelle case dei vicini per bere un caffè senza suonare il campanello. Durante l'adolescenza ho vissuto pochissimo la parrocchia, mentre ho iniziato a occuparmi seriamente delle problematiche giovanili facendo il servizio civile a Brescia, dove ho lavorato soprattutto a contatto con situazioni di handicap".
La vocazione quando è arrivata?
"Ho iniziato il mio percorso proprio negli anni del servizio civile e sono stato in seminario dai 22 ai 27 anni, salvo poi abbandonare perché mi ero reso conto che stavo solo studiando e mi pareva una perdita di tempo. Mi era mancata, insomma, la spinta motivazionale".
Che poi ha ritrovato…
"Quasi dieci anni più tardi, in Perù, dove ero arrivato grazie all'Operazione Mato Grosso. Con padre Giorgio, un prete faentino, mi sono rimesso in discussione e ho ripreso in mano quel filo. L'ho fatto, però, con l'idea di poter restare sempre in America Latina".
E invece?
"C'erano delle necessità organizzative per la gestione dei nostri gruppi in Toscana, così nel 2001 sono tornato, arrivando a Fiesole. L'anno successivo l'ordinazione sacerdotale e l'assegnazione alla parrocchia di San Francesco a Pelago, dove sono rimasto per tredici anni come viceparroco. Ed eccomi a Greve".
Il primo approccio con il Chianti?
"Dopo San Francesco avevo richiesto di andare in Casentino, un ambiente più “bucolico” che ritenevo adatto a me. Invece c'è stato bisogno a Greve e il vescovo mi ha chiesto la disponibilità a venire qua. Mi sentivo comunque in dovere di dargli una mano, visto che negli anni passati mi aveva lasciato molta libertà di muovermi tra l'America Latina e l'Italia. All'inizio ho avuto la sensazione di essere capitato in una realtà più “cittadina”, ma ben presto ho capito che non era così".
Dopo un anno che impressioni ha rispetto alla comunità grevigiana?
"È rimasta quella iniziale: un quadro comunque bello, anche se dopo un anno si iniziano a vederne gli aspetti più critici. Ho scoperto un bell'ambiente, soprattutto entrando nella vita quotidiana delle persone di cui ho imparato a conoscere di più i bisogni e le fragilità".
Un pregio di Greve?
"Sicuramente ci sono tante possibilità aperte, e le ho viste in ogni fascia di età, dai ragazzini agli adulti".
E un difetto?
"Manca un po' il coraggio di sperimentare cose nuove, sia a livello sociale che di fede. Ciò non significa che c'è chiusura mentale, ma penso che un centro così importante avrebbe le potenzialità per diventare un laboratorio di idee per tutto il Chianti. Forse manca qualche adulto “innamorato” e appassionato, che lanci una proposta e ci costruisca attorno un progetto coinvolgendo i giovani".
di Matteo Morandini
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