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venerdì 19 Aprile 2024
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    Giuliano Lunghi, il pronipote, ci racconta la storia di un uomo davvero eccezionale

    Partito come soldato volontario negli anni ’60 del 1800, indossa precocemente e coraggiosamente la camicia rossa garibaldina

    SAN CASCIANO – Concluse le prime due guerre d’indipendenza contro gli austriaci, si raggiunge finalmente, nel marzo 1861, un obiettivo straordinario: l’unificazione del Regno d’Italia.

    Del quale diventa Re Vittorio Emanuele II di Savoia. E primo presidente del consiglio un grande politico liberale, sostenitore della celebre formula “libera Chiesa in libero Stato”: Camillo Benso di Cavour.

    Nel frattempo, instancabile risulta l’azione dei democratici, mazziniani e garibaldini, che mirano al conseguimento dell’indipendenza e dell’unità, ma per via insurrezionale.

    Numerose e di notevole portata le loro iniziative: nella spedizione dei Mille (maggio 1860), mille volontari guidati da Giuseppe Garibaldi sbarcano in Sicilia e sconfiggono le truppe borboniche, permettendo così l’annessione del Regno delle Due Sicilie al nascente Stato italiano.

    Proprio nell’Esercito dell’Italia Meridionale si arruola un garibaldino molto speciale, proveniente dalla zona della Romola, Giuseppe Lunghi. Partito come soldato volontario negli anni ’60 del 1800, indossa precocemente e coraggiosamente la camicia rossa.

    Ad oggi, ciò che rimane delle imprese militari di Giuseppe è un cimelio: una pietra utilizzata per affilare i rasoi. Oltre ai ricordi del suo pronipote, Giuliano Lunghi, che costituiscono una preziosa testimonianza. Un vero e proprio spaccato di quell’epoca.

    “Purtroppo – inizia Giuliano – non ho conosciuto il mio bisnonno, poiché sono nato 5 anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1927. Però, in un certo senso, è come se lo avessi conosciuto: infatti il mio babbo me ne parlava spesso, ricordandolo sempre con affetto”.

    “Giuseppe – racconta – è nato nel 1844. A soli 16 anni, lasciò Treggiaia, località nei pressi della Romola in cui abitava con la famiglia. Partì per bisogno: prima della guerra, i tempi erano duri. Così si arruolò come volontario dell’esercito garibaldino, con il grado di soldato, nella 18^ divisione: colonnello era Nino Bixio, braccio destro di Garibaldi”.

    “Non partecipò alla spedizione dei Mille – dice ancora – Si occupò della repressione del brigantaggio: mentre era in servizio, si imbatté in un bandito talmente imbrigliato d’oro e pieno di gioielli che non sembrava nemmeno che ci fosse uno dentro”.

    Il brigantaggio postunitario, presente specialmente nel Regno delle Due Sicilie, è una forma di protesta contro la nuova classe dirigente (Cavour muore tre mesi dopo la proclamazione dell’unità), l’aumento delle tasse e il peggioramento delle condizioni economiche. E’ una delle prime guerre civili dell’Italia contemporanea.

    “Una volta congedato – prosegue Giuliano – ritornò alla mezzadria, dalla famiglia contadina. I Lunghi si spostarono varie volte: prima vissero nella zona di Sant’Andrea in Percussina, dove il figlio di Giuseppe, Cencio di Barcullo vide “le travi sfilarsi e rinfilarsi nei muri”, a causa del terremoto del 1895”.

    “Poi si trasferirono in Petigliolo – dice ancora – a circa un km da Montefiridolfi, dove coltivarono il podere della famiglia Chelazzi, produttrice di olio. Infine, a Santa Maria Macerata, si occuparono del podere Poggerina, l’attuale Fattoria Antinori. Ed è proprio qui che Giuseppe è morto”.

    “Il Regno d’Italia – spiega – prevedeva per i garibaldini dei benefici: appena riscosso il vitalizio, Giuseppe si recava a Montefiridolfi a fare spesa di sale, acciughe, baccalà, zucchero e tabacco: beni questi che pochi si potevano permettere”.

    “Tuttavia – sottolinea – ormai anziano, il mio bisnonno aveva la vista poco buona e una volta il guardia di Fabbrica, per fargli uno scherzo, incise i tralci di vite che poi Giuseppe avrebbe dovuto piegare: alle prese in giro del guardia, dovute al fatto che tutti i tralci si spezzassero, rispose con una serie di imprecazioni”.

    “A ben 83 anni – dice Giuliano – il garibaldino morì, ricevendo una cerimonia di commiato ufficiale, a cui parteciparono molte persone, tra cui persino i Carabinieri ed altre autorità: la bara fu avvolta nel tricolore e posta nel cimitero di Santa Maria a Macerata, adesso sconsacrato”.

    “L’unico oggetto rimastomi – conclude – è la pietra che Garibaldi usava per il suo rasoio: così la chiamavamo in famiglia. Fui io a dividere a metà la pietra, lunga circa 20 cm, per maneggiarla meglio nel mio lavoro di annestino. E adesso ogni volta che la guardo mi torna in mente di quanto si arrabbiò mio padre, appena scoprì cosa avevo fatto”.

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

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