BAGNO A RIPOLI – Era il 12 giugno scorso quando arrivò in redazione la notizia di una 77enne caduta durante una passeggiata con i nipoti lungo il corso del torrente Rimaggio, nel comune di Bagno a Ripoli.
Per soccorrerla fu necessario l’intervento dei sanitari della CRI, vigili del fuoco, del soccorso alpino e dell’elisoccorso Pegaso: trasferita sull’elicottero con il verricello, venne infine portata in ospedale.
Oggi, a distanza di quasi tre settimane da quel giorno, riceviamo e pubblichiamo (con grande piacere) la sua lettera aperta.
In cui sono tanti i grazie che si sente di esprimere.
Doveva essere una giornata diversa per i nostri due nipoti gemelli undicenni – Sam e Zoe – che da poco avevano concluso brillantemente il ciclo scolastico delle elementari.
La giornata sahariana ci suggeriva di andare a rinfrescarci nelle limpide acque di un piccolo rio che scorre nei pressi della nostra casa in campagna.
Ci siamo inoltrati nel bosco dove scorre il Rimaggino, un piccolo corso d’acqua fresca abitato da granchi e pesci, una meta nota, già frequentata quando i nostri figli erano bambini e si divertivano a fare Tarzan appendendosi alle liane degli alberi per tuffarsi nelle vasche sottostanti.
I sentieri d’accesso, che nel passato erano tenuti sgombri da alberi e rami spezzati dal vento, da quando il buon Bonini era morto, contadino che si procacciava la legna per la stufa offrendo a noi tratturi sicuri, dicevo questi sentieri erano stati cancellati dall’incuria, in qualche modo erano stati seppelliti anche loro… .
Incuranti di ciò, direi forse un po’ più elettrizzati da questo vita parkour che ci si parava dinnanzi, abbiamo scavalcato radici eradicate, siamo passati sotto fusti divelti dal vento.
Il percorso si faceva via via più selvaggio e questo comportava un continuo cambio di rotta avendo ben presente la meta da raggiungere, la nostra via dell’acqua.
Eravamo già in vista del ruscello, accaldati per l’impresa quando io sono caduta rovinosamente inciampando in un sasso: ” Zoe da qui io non mi rialzo più sulle mie gambe”.
Ci trovavamo in un angolo incantato, i fusti alti sopra di noi, le chiome di un verde tenero scosse da un vento caldo, alcuni rigogoli che lanciavano i loro musicali richiami… .
Il luogo era davvero bello, ma non per questo imprevisto. Un mese prima, grazie a nostro figlio Luca, avevo installato l’app 112 per le geolocalizzazione: “Non si sa mai… visto che tu sei spesso a camminare da sola per boschi”.
Ho avuto modo di sperimentarlo in tempi stretti, mio malgrado. E devo dire che la macchina dei soccorsi è stata perfetta.
Chi da subito si sono fatti paladini della nonna infortunata sono stati gli ottimi Zoe e Sam, certo già abituati a certe stranezze di questa nonna un po’ selvatica: Zoe mi è rimasta accanto finché non sono giunti i soccorsi, Sam ha contribuito ad indicar loro la via ripercorrendo il percorso a ritroso e tutti noi insieme emettendo i classici richiami che si fanno in montagna per definire le diverse postazioni.
Intorno a me ho visto materializzarsi una moltitudine di persone che discutevano sul da farsi dopo che il primo infermiere della Croce Rossa giunto sul luogo, con un solo colpo d’occhio ha decretato “femore rotto”.
Impensabile portarmi fuori da lì in barella; di certo il mio peso non era d’aiuto (era l’unico segreto che ero riuscita a mantenere: ora era di dominio pubblico…. mi è sembrato di sentir ridere anche gli uccelli….).
Esplorando i dintorni insieme a corpo degli alpini, vigili del fuoco, addetti della Croce Rossa, figli e marito al seguito, hanno adocchiato uno spazio sovrastante con una piccola radura circoscritta da lussureggianti ulivi, luoghi a me molto familiari, frequentati in ogni stagione, sempre nuovi sotto luci diverse, all’orizzonte, in lontananza, i monumenti di Firenze.
Hanno optato per quella soluzione contattando l’elisoccorso Pegaso. Mi hanno adagiata in un guscio dopo avermi sedata, legata a modino, come si dice qui, sollevata di peso (…e che peso…) e trasportata a braccia, in salita, senza una minima traccia di sentiero… .
Ogni tanto i soccorritori si dovevano fermare a riprender fiato, alcuni bestemmiando per la situazione nella quale si trovavano: la bestemmia fa parte del colorito linguaggio toscano… e l’hanno rivolta non tanto a me, il che sarebbe stato molto comprensibile, ma al povero Dio che deve farsi carico di tutti noi, nella buona e nella cattiva sorte.
Non so quante persone hanno contribuito a tirarmi fuori da lì, c’era anche mio figlio Marco e fra tutti anche due muratori che poco prima, allora ben salda sulle mie gambe, avevo salutato sul cantiere che si trova a pochi passi dall’imbocco del sentiero.
Si sono prestati anche loro, volontari: io li avevo visti per la prima volta la mattina, con loro avevo scambiato due chiacchiere di cortesia… alzando gli occhi ho incrociato i loro sguardi e li ho prontamente ringraziati.
I miei figli, se mai non l’avessero fatto prima, hanno avuto l’opportunità di mettere ben a fuoco il “peso” di questa mamma ingombrante, sempre più bambina malgrado o forse proprio in virtù dei suoi 77 anni.
Braccia sicure hanno trasferita su un altro guscio, quello che avrebbe dovuto agganciare il verricello. In situazioni come questa non si può che affidarsi totalmente: mi hanno legata ben stretta, come una buona soppressata toscana, protetto il volto con una veletta per affrontare questo viaggio in cielo e atterrare nella pancia dell’elicottero che volteggiava sopra di noi.
E’ stato in questo momento che ho dato le disposizioni ai miei figli (la veletta mi aveva riportata a Papa Francesco e alla sua morte recente): “Qualsiasi cosa succede non litigate fra di voi”.
Mio marito, quella mattina uscendo di casa mi aveva detto: “Mi raccomando… prudenza…”.
“La prudenza fa la differenza” leggevamo su alcuni manifesti a Lugano, la mia città natale. Ma questo concetto non l’ho mai ben introiettato neppure da bambina quando giocavo al fiume Brenno, in Val di Blenio.
Il fiume, l’acqua, è sempre stata una costante nella mia vita, l’acqua che scorre la fonte energetica per eccellenza, l’acqua gelida dei laghi di montagna dove noi bambini facevamo il bagno condividendo le acque con lingue di neve residue che si immergevano nel lago.
Questa è la mia storia. In sala operatoria dove mi hanno operata al femore, come aveva ben diagnosticato l’infermiere, hanno tolto dalla mia schiena terra, foglie secche e uno scorpione spiaccicato… .
Sono stata trattata bene da tutto il personale ospedaliero di Santa Maria Annunziata dell’Antella, un ospedale pubblico che riesce a sopravvivere di questi tempi con esemplare funzionalità.
In sala operatoria regnava un clima di grande collaborazione fra tutti (tanti) i membri dell’equipe di ortopedia.
Stesso clima che ho ritrovato fra infermieri personale ospedaliero: al momento del cambio di turno il corridoio si riempie di voci e risate che ci parlano di vita in un momento in cui, i nostri riferimenti potrebbero traballare sotto il peso degli eventi avversi… .
Non solo affrontano un lavoro pesante, mal retribuito, hanno anche il pregio di mantenere il buon umore.
Mi sembrava doveroso spendere due parole su questa esperienza grata per l’efficienza di ogni singola persona: un barelliere, quando mi hanno adagiata sul prato prima di essere agganciata dal verricello, s’è fatto scrupolo con la sua persona, di pararmi dai raggi diretti del sole… .
Tutte queste attenzioni, questo farsi letteralmente in quattro per aiutarmi, mi parlano di un’umanità che è riuscita a sopravvivere in questi tempi bui.
E di questo voglio parlare. C’è’ un mondo straordinario che è sensibile alle sorti avverse. In questa situazione riconosco che avrebbero avuto motivo di mandarmi a quel paese.
Ma io vivo in Italia, in Toscana: questo è il paese dell’accoglienza, “malgrez tout”. Grazie di cuore ad ogni singola persona, ringrazio mio marito che mi ha sopportata per 52 anni. Ho sempre pensato, modestamente, di aver portato un po’ di movimento nella sua vita di scrupolosissimo avvocato penalista… .
Il suo compito, finché ha lavorato, è stato quello di “liberare” i carcerati: ho approfittato di questa sua abnegazione verso i più fragili per non essere mai condannata, anche se colpevole… .
E i miei splendidi figli Luca, Silvia, Marco, Giulio, che ci hanno regalato sette nipotini che temo non mi verranno più affidati per le prossime avventure. E la famiglia e gli amici tutti.
Francesca Bolla
©RIPRODUZIONE RISERVATA