BARBERINO TAVARNELLE – Il 31 agosto don Franco Del Grosso lascerà per sempre la “sua” chiesa di Santa Lucia al Borghetto, dove ha trascorso ben 36 anni.
La notizia era nell’aria da tempo: lui stesso ne aveva parlato durante la celebrazione di una Santa Messa. Ma qualche giorno fa è stata resa ufficiale dalla nomina del suo successore, don Razvan Laurescu.
“Se si vuole bene alla parrocchia, bisogna avere il coraggio di dire basta – così aveva comunicato la sua decisione ai fedeli – In ogni caso non è un addio, perché la mia casa continuerà ad essere a Barberino Tavarnelle”.
Chiediamo a don Franco un incontro, che ci concede volentieri. Suoniamo il campanello. Il suo motorino è parcheggiato, come sempre, nello stesso posto nell’androne. Ci viene incontro con quel passo inconfondibile.
Il suo volto è sempre uguale, non è cambiato minimamente in tutti questi anni. Glielo diciamo. “Ma le mie ginocchia non sono più le stesse”, ci risponde col suo caratteristico fare da finto burbero. Ci accoglie nel suo studio e incominciamo a parlare.
Lo conosciamo da sempre, praticamente… dal battesimo. Ma è solo con questa chiacchierata che scopriamo cose di lui che non sapevamo.
E’ nato a Firenze da babbo Gino, impiegato in banca, e mamma Giulia, casalinga. E, insieme ai suoi genitori, al fratello e alla sorella, ha vissuto la prima parte della sua vita nel capoluogo toscano, nella zona di Porta al Prato.
“Ma le mie radici sono di Marcialla: la mia nonna era una Bagnoli – specifica con orgoglio – Venivo qui in villeggiatura d’estate e mi immergevo completamente nella civiltà contadina: qui ho visto la battitura del grano e ho assistito a quei momenti in cui il lavoro diventava festa”.
Poi la vocazione. Il liceo classico nel seminario. L’ordinazione sacerdotale. E l’inizio della carriera: cinque anni nella parrocchia di Sant’Antonio da Padova al Romito (Firenze), otto a Tavarnuzze, cinque come rettore del seminario minore.
Finché, il 15 luglio del 1987, non arrivò a Tavarnelle: “Il giorno successivo, alle 6 di mattina – lo rivive come fosse ora – iniziai un pellegrinaggio verso la chiesa del Morrocco secondo la consuetudine, dato che era la festa della Madonna del Carmine”.
Sicuramente in un primo momento non è stato facile: “La parrocchia inizialmente era divisa tra il Borghetto e la Pieve. Inoltre succedevo a personalità forti: subentrai a don Pini e condivisi il primo biennio con don Giorgio Mazzanti, mentre alla Pieve rimase per quindici anni don Caldini”.
Tuttavia ben presto don Franco ha trovato la propria dimensione ed è riuscito ad esprimere al meglio le sue passioni, coniugandole perfettamente con l’attività sacerdotale: “Da sempre mi piace l’architettura – per suo nipote infatti è… “l’archi-prete” – E, non c’è che dire, con il Borghetto mi sono sfogato”, sorride.
“E’ una chiesa storica: la sua costruzione è stata ultimata agli inizi del Trecento – ci spiega – Certi riferimenti architettonici richiamano quelli della basilica di Santa Croce: entrambe sono state conventi francescani. La parte posteriore, di ispirazione arnolfiana, assomiglia al piazzale dietro Santa Maria Novella”.
L’ultimo dei numerosi restauri, che ha interessato la messa in sicurezza delle capriate, è stato recentemente completato, grazie anche al contributo della comunità.
Inoltre da non molto è stato risistemato lo spazio verde vicino alla sala degli archi: “Adesso c’è un meraviglioso giardino pensile con peschi e albicocchi”, ci rivela don Franco.
“Un altro mio interesse è la storia – aggiunge – Così ho fatto delle ricerche e delle pubblicazioni”. Tra cui “La Chiesa francescana del Borghetto”, “La bella festa: alle origini di un culto mariano nella campagna fiorentina” e “Una pieve del bell’ovile di San Giovanni: San Pietro in Bossolo”“.
Ma non solo. Si è anche dedicato alla valorizzazione della Pieve di San Pietro in Bossolo, “che in passato è stata un importante centro di vita religiosa, agricola e culturale”, e all’adiacente Museo di Arte sacra, insieme ai volontari che ne garantiscono l’apertura la domenica.
“Abbiamo ricostruito alcuni pezzi di storia del paese – racconta – attraverso l’esposizione degli attrezzi da orologiaio del “Fusino” (c’eravamo pure noi quando Dario Fusi li donò, leggi qui) e i ricami fatti col punto Tavarnelle dalle “nostre” merlettaie”.
“Qui ho avuto anche la fortuna di poter esercitare la maieutica, l’arte di educare, di “tirare fuori” l’uomo – prosegue – E’ stato emozionante scoprire la comunità intorno alla parrocchia. Abbiamo fatto delle cose oggi irripetibili”.
A partire dall’Attività: un mese e mezzo di condivisione tra bambini e ragazzi che definire “centro estivo” sarebbe riduttivo; un’esperienza formativa fatta di giochi e lavoretti manuali, canti e preghiera, gite e “olimpiadi”, camminate e pomeriggi in piscina (qui l’articolo in occasione della celebrazione dei trent’anni).
“Quando arrivai – ricorda – conobbi quei bambini accanto ai quali avrei camminato per diversi anni: Lapo Consortini, Marco Lisi, Paolo Matteuzzi, Alessio Secci, David Baroncelli (il sindaco attuale)… . Avevano appena fatto la prima comunione. Li accompagnai alla cresima e dopo iniziammo le riunioni”.
“In estate la parrocchia era la casa dei ragazzi – gli si illuminano gli occhi – Si respirava un’atmosfera magica: i piccoli guardavano a quelli più grandi come punti di riferimento e si viveva in modo inconsapevole un senso di fraternità”.
Per un periodo l’ultima notte rimanevamo a dormire nel teatrino: dopo qualche brontolio e raccomandazione, il don (così lo chiamiamo tutti) lo concedeva. La sera successiva c’era la festa di fine attività, “quando tutti piangevano e io mi arrabbiavo”, dice sorridendo.
Alla fine di luglio quella bolla in cui si era stati immersi per tanti giorni, ogni mattina e pomeriggio, scoppiava. Un senso di nostalgia e il desiderio di “saltare” all’estate successiva pervadevano tutti quanti, grandi e piccini.
Per gli animatori l’unica consolazione era il campo estivo in montagna, che si sarebbe svolto ad agosto. Lì, a fianco dei loro animatori del dopocresima (i ragazzi ancora più grandi), avrebbero avuto un’occasione di riflessione e crescita personale, oltre che di divertimento.
Sentieri che non finivano più, canti e cori per esorcizzare la fatica e la soddisfazione – una volta arrivati al rifugio – di mangiare uova, speck e patate. Caccia al tesoro, serate in maschera, risate. Diario di bordo, alba in quota, confidenze segrete.
Fortunatamente questo clima in parte sopravviveva anche nelle altre stagioni. Quando una volta alla settimana, la sera dopo cena, si andava al dopocresima. E ci si apriva e confrontava su tematiche importanti, a partire da un testo, un film, un gioco.
Poi in occasione di alcune giornate, come la Rificolona, Santa Lucia e il Carnevale, gli animatori dell’Attività organizzavano delle belle feste. Dove ritrovavano gli stessi sorrisi che avevano illuminato la loro estate.
Tra il 2019 e il 2020, a causa anche della pandemia (ma non solo), tutte queste iniziative straordinarie purtroppo sono finite. Ma, chissà, magari riprenderanno il via… . Il don ne sarebbe senz’altro felice.
Nel frattempo non possiamo fare altro che ringraziarlo di cuore per tutto ciò che ha fatto per la nostra comunità e augurargli di godersi il meritato riposo.
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