TAVARNUZZE (IMPRUNETA) – Ogni giorno sentiamo parlare di Covid-19, di asintomatici e di tamponi. Di cariche virali, di restrizioni e di lockdown.
Ciò di cui sentiamo parlar meno sono i danni psicologici arrecati dal Covid. Quelli non presentano alcun sintomo, né sono visibili, non sono misurabili con un tampone. Ma dentro di corrodono lentamente.
Quella che vi raccontiamo è la storia di Roberta, positiva al Covid ancora oggi dal 6 novembre. Oltre due mesi e mezzo.
Roberta è una maestra di Tavarnuzze, insegna in 13 classi tra scuola elementare e dell’infanzia. E ama il suo lavoro.
“Tutto – ci racconta – è iniziato con mal di testa e mal di schiena, che non avevo associato minimamente al Covid. Pensavo fosse un problema di stanchezza e di postura. Poi ho avuto un giorno di febbre, solo uno. Così ho deciso, insieme al medico, di fare un tampone, considerato anche il contatto quotidiano con i bambini”.
“Mentre aspettavo il risultato del primo tampone – prosegue – ero quasi certa di non essere positiva, o almeno lo speravo. Sono sempre stata attentissima, rispettando tutte le regole e prendendo tutte le precauzioni: gel disinfettante, mascherine, distanza di sicurezza”.
Dopo cinque giorni, molto lunghi da passare, è arrivato il risultato: positiva al Covid-19. E da quel giorno è iniziato il calvario di Roberta.
“Ho mandato in quarantena sei classi – ricorda – ma ho voluto comunicarlo io stessa alle famiglie che ero positiva, attraverso il gruppo Telegram della scuola. Non deve certo essere una vergogna aver contratto il virus”.
“Anche mio figlio – ci spiega – con il quale vivo, è risultato positivo asintomatico. Ma lui dopo tre tamponi si è negativizzato. Io invece mi sono sottoposta a ben dieci tamponi, con cadenza settimanale, tutti positivi”.
Per fortuna le regole in vigore hanno permesso un minimo di libertà: “Dal 5 dicembre l’Asl mi ha rilasciato la liberatoria per uscire, per fare la spesa o portare fuori il cane, in quanto dopo ventuno giorni asintomatici non si è più contagiosi. Per tornare a lavorare invece il tampone deve essere negativo”.
Ed è qui che è iniziato il vero incubo di Roberta: “Nonostante la liberatoria ho evitato qualsiasi contatto sociale, uscivo solo per portare fuori il cane in orari improbabili. Non appena rientravo a casa chiudendo la porta dietro di me avevo il battito accelerato, causato dall’ansia. Questo è l’aspetto del Covid di cui non si parla molto (e si sottovaluta), che arreca danni pesanti a livello psicologico”.
“Il problema non è stato – tiene a specificare – e non è tuttora l’isolamento. Ma arriva quando, finalmente, ti danno il permesso per uscire. Anche se positivo: e tu hai paura di poter contagiare qualcuno, di poter far del male”.
“Avevo iniziato a vedere la luce – continua la sua storia – quando gli ultimi due tamponi erano risultati positivi a bassa carica. Poi, venerdì scorso, l’ultimo. Nuovamente a piena carica. Il Covid ti sfinisce dentro, si passa da avere la speranza che tutto finisca, alla rassegnazione, alla disperazione”.
“L’attesa del risultato del tampone è snervante – ammette – Ho imparato a vivere giorno dopo giorno senza farmi troppe speranze o attese”.
“Nei prossimi giorni – conclude – farò il mio undicesimo tampone, con la speranza di risultare finalmente negativa e poter tornare a lavoro. Poter tornare alla normalità. Poter tornare a vivere”.
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