In questo periodo di Pandemia dove l’aria rimbomba di invocazioni al Natale consumistico mi torna alla mente come si aspettava l’Evento nella nostra infanzia.
Innanzi tutto eravamo nell’immediato dopoguerra e c’erano ancora tanti giovani assenti, sia morti che ancora prigionieri.
Le famiglie contadine ancora numerose con tanti ragazzi da accontentare e pochi soldi da spendere.
Per quanto riguardava i residenti in paese, c’erano i pochi privilegiati con le “botteghe” e molti “pigionali” col libretto della spesa che saldavano il bottegaio di alimentari quando avevano i soldi.
I contadini bene o male mangiavano; di questi tempi c’era da tirare il collo al cappone per il Natale e da lavorare il maiale per la Befana. Allora la temperatura era più fredda, gelava e veniva la neve intorno la befana che ci stava un paio di settimane.
I contadini se non avevano raccolto tutte le olive le dovevano raccattare per terra dopo cotte dal gelo e facendo un pessimo olio, che consumavano loro e vendendo quello fatto prima.
La festa era tutta religiosa e si sentiva nell’aria da metà mese con lo scampanio invitante il popolo alla “novena ” preparatoria alla celebrazione del Natale.
Ancora non c’era la TV e la socializzazione era ristretta ma calorosa in quanto alla sera c’erano le veglie nelle case contadine e spesso passavano compagnie di bruscellanti a raccogliere omaggi e facevano uno spettacolino (ricordo uno che faceva il Dottore e per misurare la febbre tirò fuori il metro!).
Gli omaggi consistevano in fiaschi di vino, uova, qualche forma di Pecorino ma pochissimi soldi perché “un ce n’èra”.
Quando aprirono i primi Circoli i grandi giocavano a carte e la settimana prima di Natale giocavano il panforte buttandolo su un tavolo a una certa distanza, vinceva colui che più si avvicinava all’estremità, ma non doveva farlo cadere… .
A mezzanotte c’era la Messa con la “nascita di Gesù bambino” e il saluto col bacio alla statuina nel cesto.
Il giorno di Natale la massaia tirava fuori tutta la sua arte culinaria e sul focolare metteva il pentolone con mezzo cappone e il “collo ripieno” per il brodo e faceva i crostini.
In un tegame a parte metteva l’altra metà con il sugo che poi arricchiva coi “carducci” (getti della pianta di carciofo). Il “dessert” era fatto da una torta casalinga, cavallucci, panforte e vinsanto.
A noi ragazzi invece davano il “vin dolce” (mosto d’uva filtrato e non fermentato). La sera c’era il “Vespro con la predica”, e così si passava al Santo Stefano, che alla pieve di Campoli era una festa importante in quanto Patrono, e quel giorno toccava ai parenti essere ospitati.
Anche quel giorno era un evento perché qualcuno ci portava un regalino. Le settimane bianche l’avevano da inventare… .
Ma le pandemie c’erano anche allora: l’Asiatica che mise a letto mezza Italia….
Roberto Borghi
@RIPRODUZIONE RISERVATA