CHIANTI –  Si chiama “Un’immobilitĂ dinamica” (Albatros Il Filo, Collana Nuove Strade) il libro di Patrizia Fondelli che racconta e descrive la cultura contadina. Cultura del territorio chiantigiano, che in realtà è allargabile a tutto quello toscano.
Ma lo fa in un modo incosueto, da un punto di vista originale, ovvero rapportandola a quello che stava accadendo nel ’68. E al contrasto stridente fra questi due mondi: “Un ricordo per chi ha vissuto quel periodo e ci si può riconoscere, oltre che per i giovani, che potrebbero essere incuriositi da quanto narrato”.
“Dacia Maraini – ci dice Patrizia – nota scrittrice, si esprime in uno dei suoi libri, descrivendo la “follia della cultura contadina”. Mai veritĂ fu piĂą appropriata”.
“Nasco a Firenze nel 1952 – si racconta l’autrice – da genitori provenienti dal Val d’Arno; la famiglia di mio padre, povera, ma evoluta, è quella che ha maggiormente (e in maniera positiva) influenzato la mia crescita”.
“Quella di mia madre – riprende – può essere connotata come arcaica, maschilista e, nelle sue tradizioni contadine, anche crudele”.
“Alcune delle esperienze che descrivo – ci dice ancora – sembrano appartenere ad un’epoca medievale; lavare i panni in Arno, “incantare i bachi” (pratica finalizzata a sconfiggere i vermi intestinali, causa ritenuta responsabile della mia magrezza), la castrazione dei
polli per il cappone natalizio…”.
“Tutto questo – ricorda ancora – era in contrasto con ciò che vivevo a Firenze, a scuola, durante la rivolta sessantottina. Coniugare due aspetti così opposti e contraddittori, mi
causava all’epoca un enorme conflitto. E disagio. La psiche, l’anima, della nipote di contadini toscani faceva dolorosamente a pugni con la realtĂ improntata al rivoluzionamento di stili culturali ritenuti obsoleti e all’emancipazione della donna”.
In che modo ha quindi conosciuto la “sua” cultura contadina?
“Ho conosciuto la cultura contadina perchĂ© la famiglia di mia madre ne faceva parte e, in quella, ho trascorso buona parte della mia infanzia e dell’adolescenza. Ne ho assimilato gli usi e i costumi; dalle abitudini culinarie alle relazioni familiari, al patriarcato e al non rispetto della figura femminile, oltre alle superstizioni comprendenti approcci vissuti come taumaturgici – o considerati tali – della medicina popolare. Riporto esperienze e le racconto oggi con serenitĂ ed un certo critico divertimento che, in quegli anni, non poteva emergere”.
Perché farla diventare un libro?
“Ho raccontato nel libro il mio conflitto adolescenziale amplificato dalle contestazioni sessantottine che, in quella realtĂ , trovava maggiori contraddizioni”.
Cosa vorrebbe lasciare nel lettore una volta chiuso il suo libro?
“Vorrei lasciare nel lettore il ricordo di un’epoca che “sembra” lontana e che non può non apparire tale ai piĂą giovani. Ma, volentieri, mostrerei che le tracce di quell’epoca sono ancora culturalmente molto presenti”.
Le piacerebbe, una volta che sarĂ possibile, presentarlo in Chianti? E dove?
“Mi piacerebbe presentare il mio libro in uno spazio (Covid permettendo) che consentisse un confronto dinamico, interfacciandomi con una platea curiosa di conoscere quella ormai irripetibile realtĂ …”.
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