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venerdì 13 Settembre 2024
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    La famiglia di ebrei sancascianesi uccisa nei campi di sterminio nazisti

    Nel Giorno della Memoria vi raccontiamo la storia dei Modigliani, che vennero prelevati dalla casa in via Roma

    SAN CASCIANO – Il 27 gennaio 1945 venivano aperti i cancelli di Auschwitz. A liberare il campo di concentramento furono i soldati sovietici: davanti ai loro occhi si presentarono crimini di incredibile efferatezza.

    Crimini che non risparmiarono anche altri campi di concentramento. Ad Auschwitz in pochi riuscirono a salvarsi, donne, bambini, uomini, non uscirono vivi. Tra questi un bambino, Vittorio, che fu prelevato in una casa di San Casciano (in via Roma), insieme a tutta la sua famiglia. La loro “colpa” era di essere ebrei.

    Come altre famiglie ebree erano venuti a trovare rifugio scappando da Firenze in questa zona del Chianti: che però, purtroppo, non risultò abbastanza sicura.

    Ecco perché nel “Giorno della Memoria” Il Gazzettino del Chianti vuole dare un contributo nel raccontare cosa avvenne in paese, grazie ad alcune preziose testimonianze raccolte negli anni.

    Preziose perché il tempo si è portato via storie che potevano essere scritte ascoltando persone adulte che avevano vissuto direttamente questi episodi. Come quella di Vittorio, deportato e morto ad Auschwitz.

    Ma chi era questa famiglia di ebrei? Era composta dal padre, l’ingegner Giacomo Modigliani, la moglie Elena, i figli Letizia e Vittorio con la nonna Olimpia. Di loro si salvò solo Letizia, che oggi è una signora di 79 anni segnata indelebilmente da quei giorni.

    IL RICORDO DI LEONETTA BROGELLI

    A San Casciano abbiamo cercato e trovato chi si ricordava di loro. Nel 2006 fu Leonetta Brogelli (oggi non c’è più) a darci la sua testimonianza: “Nel 1943 ero una bambina – ci raccontò – e aiutavo i miei genitori nel negozio alimentari trattoria in via Borgo Sarchiani che si chiamava “Trattoria da Gano di Gino”, dove i Modigliani venivano spesso a mangiare. Ricordo che il piccolo Vittorio lo chiamavano “Vittorino”, era un bambino bellino, molto buono, mentre la mamma Elena, soprannominata “Lilly”, raccontava di essere diventata cattolica”.

    “Viaggiava sempre con il certificato di battesimo nella borsetta – proseguì – nonostante gli fosse consigliato di non farsi vedere spesso a giro in paese. I momenti erano brutti ma lei orgogliosa rispondeva: “Se mi fermano gli faccio vedere che sono cristiana, lo dimostra il mio certificato di battesimo”. Ma tutto ciò non le bastò”.

    “Per quanto riguarda la sorella di Vittorio, Letizia – ci raccontò ancora – ho sempre saputo che questa bambina fu salvata da un soldato tedesco che la lasciò alla stazione ferroviaria di Firenze, poco prima che partisse il treno per il campo di Fossoli (Modena). Letizia piangeva disperata: a un soldato guardandola in volto sembrò di vedere sua figlia, così la salvò facendola scendere dal vagone. Fu sua zia Nori a prendersi in seguito cura di lei. E che mi raccontò questa storia”.

    IL RICORDO DI ANNA

    Un’altra testimonianza ce la fornisce Anna: “Io abitavo accanto alla famiglia Modigliani, in via Roma, avevo la stessa età di Letizia. Ricordo che erano molto riservati, il babbo Vittorio mi sembra che fosse ingegnere e lavorava alla Galileo, mentre la moglie Elena penso che fosse un medico”.

    “Tanto che un giorno – prosegue – affacciandosi alla finestra che dava sul retro di via Roma, vide che ero tutta fasciata e domandò alla mia mamma cosa avessi fatto. Avevo contratto il morbillo, così riferendosi a mia mamma la signora Elena esclamò: “Tolga quella fasciatura alla bambina, altrimenti non guarisce, la benda fa “rinfocolare” il morbillo!”. Ricordo che Letizia era una bambina molto bellina con i capelli a zazzerina, non veniva a giocare in piazzetta con noi anche perché ci dicevano che, essendo lei un’ebrea, i tedeschi avrebbero preso anche noi”.

    “Anche gli adulti erano intimoriti a parlare con questa famiglia – rammenta Anna – tanto che i Modigliani vivevano la loro giornata abbastanza appartata, nonostante le famiglie del vicinato fossero dispiaciute per questo. La sera e la mattina bussavo alla parete di Letizia per darle la buonanotte e il buongiorno, le nostre camere erano confinanti. Il mio babbo portò una galena all’ingegner Modigliani, che di nascosto ascoltava l’evolversi della guerra”.

    La memoria è lucidissima in questa signora: “Sempre il mio babbo aveva sistemato nelle cantine, che erano grandissime, degli scaffali sistemandoci le cose di casa, compresi i generi alimentari. Perché pensava che durante il passaggio del fronte ci potessimo nascondere lì per diversi giorni. Ma non ci siamo mai andati in cantina perché dopo che avevano portato via i Modigliani, i tedeschi minarono i palazzi, così mettemmo poche cose su un carretto per andare a  rifugiarci in una villa a Decimo”.

    “Mi tornano ancora in mente – ci dice – i militari con degli stivaloni neri e lucidi che bussavano a tutte le porte. Dopo aver preso la famiglia di ebrei, in molti si affacciarono alle finestre di via Roma dicendo: “Hanno portato via i Modigliani!”. Per poi ritirarsi alla svelta per paura di ritorsioni. C’era anche chi diceva che i tedeschi avevano legato il piccolo Vittorio dietro un camion e che lo avevano trascinato lungo via Borromeo. Mio babbo la sera, appena saputa questa notizia, prese la bicicletta e percorse tutta via Borromeo per vedere se lo avevano abbandonato lungo la strada, ma risultò una infondata. Mi piacerebbe tanto incontrare Letizia, sapendo che è riuscita a salvarsi”.

    IL RICORDO DI PASQUALE BELLINI

    Anche Pasquale Bellini, venuto a mancare poco tempo fa, ci raccontò i suoi ricordi: “I Modigliani venivano a fare la spesa nella nostra bottega di generi alimentari e forno con mescita di vino in piazza Cavour, accanto alla caserma dei carabinieri. Abitavano poco distante, nel palazzo Del Bravo in via Roma. Io avevo 14 anni e stavo in bottega con il mio babbo”.

    “L’ingegner Giacomo Modigliani – raccontò Pasquale – era un uomo alto e magro, la moglie era una bella signora e avevano due bambini. Mi sembra sia stato nel mese di novembre quando furono portati via, di sicuro era una domenica del ’43. Quella mattina di buonora uscii da casa in via Borgo Sarchiani per andare ad aiutare il babbo, saranno state le 6, quando attraversando via Machiavelli vidi con grande sorpresa un milite delle camicie nere con la pistola in pugno che avanzava con fare minaccioso dietro a un civile”.

    “Lì per lì mi chiesi se stessi sognando – proseguì Pasquale – perché dopo il 25 luglio avevo visto la caduta del fascismo con la gente che festeggiava per le strade con canti, sventolando bandiere. Arrivato in via Roma, sempre più confuso, mi sentii intimare: “Alt e mani in alto!”. Erano due tedeschi che puntandomi il mitra mi chiesero i documenti. Con voce tremolante, assalito dalla paura, risposi che non li avevo e che stavo andando ad aiutare il babbo nella bottega poco distante. Forse vista la mia giovane età e la bottega vicina mi lasciarono andare”.

    Dopo la paura raccontò tutto al babbo: “Ricordo che mi disse: “O cosa succede stamani! Non apriamo la bottega e speriamo bene”. Dopo pochi minuti si sentì bussare violentemente alla porta, andai ad aprire trovandomi davanti due o tre militari in divisa, e altrettanti in borghese. Che con fare allegro e scherzoso entrarono dicendo di aver sentito il profumo del pane fresco, tanto che ne chiesero due filoncini. La bottega si trovava vicino alla caserma dei carabinieri, dove i militari tedeschi si erano insediati”.

    Anche la memoria di Pasquale era lucidissima quando ci raccontò quella giornata: “Intanto dalla Propositura, terminata la prima messa, le donne si fermavano a fare la spesa e in molte case di antifascisti, e soprattutto di ebrei, questi venivano prelevati e portati in caserma. Uomini, donne e bambini che sarebbero andati incontro a un triste destino: tra questi c’era anche la famiglia Modigliani”.

    “Ogni tanto – conclude Pasquale – entrava un milite andando a parlottare con uno di quelli che erano venuti attirati dal profumo del pane, che nel frattempo si erano messi a mangiare e bere, questo si alzava, andava in caserma e tornava. Probabilmente andava a verificare i prigionieri portati alla spicciolata. Abbiamo saputo dopo che quell’uomo, non tanto alto con un cappotto grigioverde e la bustina militare in testa, la camicia nera con i teschi e un cinturone con la pistola, altro non era che il capo dell’“Ufficio politico investigativo” la R.S.S. “Reparto dei Servizi Speciale”, il maggiore Mario Cartità, torturatore e massacratore di partigiani e civili”. 

    A distanza di tutti questi anni sarebbe bello che il Comune di San Casciano ricordasse con una targa commemorativa, posta su Palazzo del Bravo in via Roma, quella che è stata l’ultima dimora dei Modigliani. Deportati e uccisi nei campi di sterminio.

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

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