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giovedì 9 Maggio 2024
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    L’INTERVISTA / “I miei primi 25 anni da sacerdote”. Don Stefano, la fede, Grassina, San Pancrazio…

    "A 10 anni ho detto a voce alta quello che sentivo di dover fare. C'erano i campiscuola estivi in seminario. La prima volta sono stato cacciato perché non ero pronto!"

    SAN PANCRAZIO (SAN CASCIANO) – Nei giorni scorsi un grande traguardo è stato celebrato dalla comunità di San Pancrazio: il parroco, o meglio “il pievano”, don Stefano, ha raggiunto i 25 anni di sacerdozio.

    Uno scalino importante, che ha scelto di celebrare senza feste, ma pregando insieme alla sua comunità. La chiesa piena di persone provenienti da tante realtà diverse; come tante sono state le tappe che ha percorso in questi anni.

    “Un traguardo – ci confessa Padre Stefano – di cui ho capito l’importanza solo grazie alla mia comunità. Stando con loro infatti ho capito che questi 25 anni rappresentano per loro un esempio di fedeltà; per questo mi è sembrato doveroso ringraziare con la preghiera questo successo di misericordia e perdono di Dio che ha trasformato la mia vita”.

    Ma partiamo dall’inizio: cosa voleva fare da bambino? Hai sempre voluto fare questo?

    “Direi di sì, a 10 anni ho detto a voce alta quello che sentivo di dover fare nella mia interiorità. Mi ricordo che all’epoca si potevano fare dei campiscuola estivi in seminario, per far capire il futuro del sacerdozio. La prima volta sono stato cacciato perché non ero pronto! Ma poi questa cosa è rimasta. E alle medie, nel classico tema su cosa si volesse fare da grande, io ho espresso chiaramente la mia idea di diventare “sacerdote missionario”. Ricordo di essere stato preso in giro per questo dai miei coetanei, ma non ne ho mai sofferto molto, sono sempre stato convinto e contento di quello che ero, avevo già “la colpa” di essere un bambino senza babbo, quindi questo lo potevo superare”.

    E poi?

    “Al liceo ho studiato per diventare maestro elementare e ho fatto come tutti il servizio militare. Certo, come tutti i ragazzi ci sono state le prime amicizie, i primi bacetti… ma dentro avevo sempre questa sensazione di avere un qualcosa di non realizzato da esternare.”

    Come è nato quindi il percorso per diventare sacerdote?

    “Tutto è nato grazie all’incontro con un frate toscano che ogni sei mesi veniva a predicare lì vicino Bari, dove abitavo io. E’ stato un incontro illuminante e con lui ho capito chiaramente dove volessi andare. Mi sono informato su come poter diventare frate e poco dopo mi sono ritrovato sul treno per la Toscana insieme a lui. Il ricordo più bello di quel viaggio sono state le ginestre in fiore che ho visto dal finestrino; non ne avevo mai viste e mi sono sembrate bellissime!”.

    Quali sono state le tappe principali di questi 25 anni di sacerdozio?

    “Dalla Puglia mi sono ritrovato prima in un convento ad Arezzo, poi di Ponte a Poppi. Ho fatto 10 anni di formazione come frate, come sacerdote e sicuramente come persona. Le persone pensano che uno si consacra a Dio per una “chiamata”, per una scelta interna. Questo è vero in parte, perché capisci di essere consacrato o meno da Dio solo insieme agli altri; solo lì in convento infatti, vivendo in fraternità e al servizio degli altri, ho capito che era la strada giusta. Nel 1996 ho iniziato il mio servizio ad Arezzo in una casa di ragazzi disabili, l’associazione Cinque pani e Due pesci è diventata la mia seconda casa. Nello stesso periodo ho iniziato il mio servizio in carcere, dove ci sono restato per 6 anni. In queste realtà ho potuto conoscere la sofferenza più dura: sono situazioni dove l’umanità è più nuda. La loro sofferenza ti entra dentro, ti mostra quanto siamo piccoli e quanto sia importante dedicare la nostra vita a prenderci cura dell’altro. Il 2005 poi è stato l’anno più difficile della mia vita, sono morti i miei genitori, ho dovuto affrontare il dolore e ho avvertito la necessità di uscire dal convento, così ho richiesto di essere inserito nelle parrocchie”.

    Arriviamo a Grassina…

    “Per 10 anni ho affiancato don Fabrizio nella parrocchia di Grassina ed è stata davvero un’esperienza di pura fraternità: in 10 anni non abbiamo mai discusso! Lavoravamo e mangiavamo insieme, pregavamo insieme ed è stato fondamentale per capire l’idea di comunità cristiana che vorrei costruire e che sto cercando di riproporre qui a San Pancrazio. Dove sono arrivato 5 anni fa”.

    E i viaggi missionari?

    “Come ho detto, il mio sogno da bambino era quello di diventare sacerdote missionario, e questa esigenza è rimasta per molti anni irrisolta dentro di me. Poi, nel 2003, sono stato inviato per una settimana a predicare il Vangelo con i frati missionari in Africa. Il ricordo più bello di quella prima volta in terra africana è quello di una giovane ragazza incinta che mi faceva da guida nel villaggio e mi traduceva quello che mi veniva detto. Un giorno mi disse che erano contenti di avermi lì con loro perché avevo lo sguardo buono, ero una bella persona. E’ stata una sensazione di pace e di consapevolezza importante, ho capito che nel piccolo potevo fare la mia parte per loro”.

    E’ stato solo l’inizio quindi?

    “Con don Fabrizio abbiamo iniziato a sviluppare i campi di lavoro a Rincine e le missioni umanitarie in BurKina Faso, ma anche in Ruanda, la Guinea Bissau, il Libano. Tante realtà povere che richiedono di essere aiutate, di essere ascoltate, di essere amate. Non sono mai partito solo, abbiamo sempre organizzato i viaggi coinvolgendo la comunità, perché anche questa diventi aperta al mondo e al male del mondo. Ogni anno siamo riusciti, grazie alla loro misericordia, a portare tanto a queste comunità: soldi, mangiare, giocattoli, vestiti, utensili, materiale per la scuola, cibo. Ma soprattutto abbiamo cercato di donarci come persone che, in quel poco tempo che eravamo con loro, si prendessero cura di loro per quel che ci era possibile. Ogni missione abbiamo cercato di aiutarli a costruire pozzi, case, strade; abbiamo giocato con i bambini e non ci siamo mai dimenticati degli ultimi, dei disabili, delle persone sole o malate con una carezza, un sorriso o semplicemente del tempo da trascorrere insieme”.

    Cosa l’ha spinta a tornare in Italia, non le veniva voglia di rimanere in Africa?

    “Ogni volta! In questi 20 anni di missioni ogni volta mi sono detto di restare, di rimanere lì con loro a fare di più. Poi col tempo ho capito che la Toscana è diventata definitivamente la mia casa. Il mio compito è tornare dalla mia famiglia, l’associazione Cinque pani e Due pesci e tutte le famiglie che ne fanno parte. Se penso che un giorno dovrò terminare la mia vita, è giusto che io sia nel mezzo a loro e concluda questo percorso qui. Poi adesso ho la mia casa, la mia pieve di San Pancrazio che mi piace tanto! L’unica che, forse sto davvero invecchiando, sento come “casa” e dove sono felice di tornare, abbracciato dalla mia bella comunità”.

    Cosa si augura, infine, per il futuro?

    “Il mio augurio è quello di riuscire a costruire ancora di più una comunità cristiana che cresce: cresce dentro, cresce sul territorio, e fa entrare il mondo dentro. La chiesa non è del paese, la comunità non è il paese, sono le persone di qui e fuori di qui che desiderano crescere insieme nella fede e nell’amore per l’altro. Spero di continuare ad essere un esempio per i miei parrocchiani, per aiutarli a sentirsi delle persone libere, capaci di donare la propria vita per l’amore e per il bene dell’altro”.

    @RIPRODUZIONE RISERVATA

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