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venerdì 2 Maggio 2025
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    L’amore di Diana Lenzi per Petroio, la “terra delle pietre”

    C’è un viale magico nei dintorni di Quercegrossa, nelle campagne di Castelnuovo Berardenga: un viale circondato da vigne, da enormi massi usciti durante gli “scassi” per costruirle, da alberi che in primavera esplodono di fiori. Al termine del quale si erge un borgo.

    La Fattoria di Petroio (letteralmente… luogo delle pietre) “galleggia” in uno spazio sospeso nel tempo, in cui la passione, la tecnologia e la modernità si uniscono a un luogo che rimanda a suggestioni antiche. Tanto che basta alzare lo sguardo per vedere nella facciata della villa, recentemente ristrutturata, un pezzo di bomba della Seconda Guerra Mondiale. Lasciato volutamente lì, incastrato, a rappresentare un passato che deve essere sempre presente.

    Ad accoglierci è la proprietaria della Fattoria, la giovanissima Diana Lenzi: “L’azienda – ci racconta – fa parte della famiglia di mio padre, Gianluigi, dalla fine del 1800. Partendo dal ramo familiare di mia nonna, i Pallini, di origine maremmana. Petroio era un’azienda molto più grande di oggi, ci vivevano circa 30 famiglie fra borgo e terreni. Era una fattoria vecchio stile con olio, vino, grano, orzo, animali”.

    Una storia suggestiva quella che ha permesso a Petroio di diventare quello che è oggi: “La famiglia di mio padre è composta da molti medici. Lui è professore ordinario di neurologia: si è laureato alla Normale di Pisa ed ha preso un incarico a Roma. Eravamo negli anni ’70, gli anni dello svuotamento delle campagne, quando è cambiato tutto: quando, verso il 1978, mio padre ha conosciuto mia mamma (Pamela, americana di Seattle)”.

    Era arrivata in Italia nel 1969 a 18 anni. Doveva studiare un semestre italiano, ma si innamorò della Toscana: arrivò il giorno di Ferragosto a Firenze insieme a un’amica, era tutto chiuso. Vennnero “rimorchiate” da due ragazzi fiorentini, che le portarono a mangiare fuori. E il ristorante era la  casa di Niccolò Machiavelli, a Sant’Andrea in Percussina, dove fino a poco tempo fa c’era sede del Consorzio del Vino Chianti Classico. Una sorta di… premonizione.

    “Nel ’78-’79 – ricorda Diana – era il momento delle grandi decisioni: Petroio cambiava, mia nonna Fulvia che diceva che bisognava prendere una decisione. E i miei genitori decisero di dedicarsi a Petroio: di crearci la casa per una grande famiglia allargata e di concentrarsi sui vigneti. Erano affascinati: qui si faceva un vino rustico e campagnolo, loro due amanti il buon vino e il buon cibo. Mio padre ha, di pari passo, continuato la sua carriera medica, mentre mia madre ha scelto di gestire Petroio. E’ andata al Consorzio del Chianti Classico a presentarsi chiedendo aiuto e consulenza: ha conosciuto il dottor Pucci e l’enologo Carlo Ferrini. Sono venuti, hanno detto che c’erano grandi potenzialità ma un lavoro infinito da fare”.

    L’idea di fondo è sempre stata quella di fare un Chianti Classico tradizionale: “Mia madre ha un amore smodato per il Sangiovese e per i suoi complementari (Canaiolo, Colorino e Malvasia Nera). Negli anni ’80 abbiamo piantato un po’ di Merlot come una sorta di “assicurazione” sulla produzione. L’enologo disse che andavano rifatti tutti i vigneti, i miei hanno investito pezzetto per pezzetto. Oggi abbiamo 15 ettari a vigneto, 3 a oliveto (780 piante) e circa 100 ettari a bosco. In 30 anni in pratica questa azienda è stata dalla testa ai piedi: oggi mancano solo un pezzetto di vigna e un pezzetto di borgo da sistemare”.

    Poi arriva il momento di Diana: “Nel 2008 mi ero laureata in Scienze Politiche ma ho scelto di seguire la mia passione, la cucina. Mi sono diplomata come chef con le scuole professionali del Gambero Rosso. Lavoravo in un ristorante importante ma cercavo un luogo più piccolo e raccolto. In quel periodo mio padre è stato chiamato dal ministro alla Salute Fazio nella sua esperienza di Governo: mi ha chiamato a pranzo e mi ha fatto “la” domanda. Essendo cresciuta vedendo Petroio trasformarsi giorno dopo giorno ho preso una decisione che ha stravolto la mia vita. Ho deciso di trasferirmi qua: sto qui dal lunedì al venerdì e torno a Roma il week end. Serve staccare mentalmente, questo posto assorbe tanto: non sono la proprietaria che guarda le cose dall’alto, ho messo i piedi in vigna e le mani nelle vasche. Mi occupo anche della gestione burocratica, economico-amministrativa, commerciale”.

    Diana ha tre persone di fiducia che la affiancano: Ilirian detto Emiliano, responsabile del campo (vigneti, oliveti, manutenzione del borgo); uno dei giovani enologi di Ferrini, Alessio, che segue la cantina; Ilaria, un’altra dei giovani di Ferrini, che è una colonna, in grado di fare tutto, “il mio braccio destro e sinistro” dice Diana.

    “Il mio babbo – prosegue – viene il fine settimana. Mi segue, è stato molto bravo nel passarmi l’azienda. C’è stata la totale delega, con tutti i pro e con tutti i contro: grande libertà di manovra da un lato, la necessità di risolvere le cose da sola dall’altro. Ma non nega mai una mano. Poi c’è mia mamma, che ha creato un grande mercato con gli Usa (area di Seattle e Portland): esportiamo anche in Giappone, Cina, Francia, Olanda, Danimarca, Svizzera… . Quello statunitense è il mercato di mia madre: uno dei due viaggi che facciamo all’anno per promuovere i prodotti lo fa lei negli Usa, l’altro lo faccio io. La tengo attiva sulla parte commerciale, andiamo prevalentemente al Pro Wine, seria e organizzata. Non riusciamo a entrare in sintonia con il Vinitaly. Adesso stiamo tentando di rientrare nel mercato inglese”.

    Chiediamo a Diana come immagina Petroio fra dieci anni: “Me la immagino più piccola come estensione in ettari – risponde – a dimensione mia. Sto lavorando su un progetto di vitigni storici per la produzione di un Chianti Classico tradizionale ma anche per andare verso Igt interessanti, con vitigni autoctoni (Canaiolo, Colorino, Malvasia…). C’è da lavorare molto anche sulla cantina”.

    Ormai il legame fra Diana e questa terra delle pietre è saldissimo: “Voglio anche stare ancora di più qui, fare maggiore ricezione, degustazione, cucina. Da piccola mia mamma mi metteva nel lavandino mentre lei cucinava, l’ho sempre seguita, misurando farina, zucchero, … . Lei ha sempre lasciato le porte aperte per tutti, cene, pranzi. Io sono identica”.

    Matteo Pucci

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

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