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domenica 6 Luglio 2025
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    Lina Selvolini, anima di Volpaia

    Arguta e cordiale sin dalla sua espressione, tipica delle nonne chiantigiane, e dotata di una grande capacità comunicativa.

     

    Dai racconti di Lina Selvolini riemerge come per capitoli la storia del borgo di Volpaia, probabilmente il più affascinante e integro del comune di Radda in Chianti, posto, come scrive Emanuele Repetti, alla sommità dei “poggi viniferi” che conducono fino alla Badiaccia di Montemuro, al triplice confine tra le province di Siena, Firenze e Arezzo.

     

    Lina Selvolini – vietato per sua stessa volontà chiamarla signora – e i suoi antenati hanno abitato, nel corso dei secoli, in una delle più imponenti case costruite nel corpo della cinta muraria del castello, oggi divisa e adibita a struttura ricettiva se non per l'abitazione in cui lei stessa vive e al cui ingresso è ancora scolpita sulla pietra e ben visibile una Croce di Malta dal fascino secolare.

     

    Lina racconta di come la sua famiglia abbia gestito"per duecento anni" una storica bottega di generi alimentari, poi cresciuta con la vendita di sali e tabacchi, infine venduta alla fine degli anni Cinquanta.

     

    Mostra con dovizia di particolari e tecnicismi degni di una guida turistica tutti gli elementi architettonici esterni ai resti della cinta e i segni più o meno palesi dello sviluppo urbanistico del borgo, posto sullo scacchiere di guerra che vedeva contrapposte Firenze e Siena tra il XIV e la metà del XVI secolo per la disputa dei confini sul territorio chiantigiano: un castello a forma ellittica, originariamente munito di torri di guardia lungo tutto il perimetro e di un torrione circolare a difesa del fronte settentrionale, dove oggi insiste proprio una porzione della proprietà Selvolini.

     

    Ma, per evidenti ragioni anagrafiche, è dall'epoca della Seconda Guerra mondiale che Lina restituisce i ricordi e i racconti più diretti e suggestivi, forse anche per il segno lasciato in lei, bambina non ancora di dieci anni, dalla terribile esperienza dell'occupazione militare nazifascista.

     

    In quel contesto di profonda ruralità, dove i rapporti di lavoro procedevano ancora secondo i canoni mezzadrili dei proprietari terrieri (l'industriale Faini, il marchese Bartolini e il signor Piercapponi) che offrivano il lavoro nei campi alle famiglie del luogo, i soldati tedeschi avevano individuato nei locali di Casa Selvolini la base logistica del loro comando territoriale.

     

    L'arroganza e l'arbitrarietà dei loro comportamenti sono il ricordo più marcato sul fronte dei rapporti umani, per lei che aveva anche rischiato di rimanere colpita da una raffica di spari d'artiglieria in una rappresaglia.

     

    Scambi di ostilità militari e scontri che, qui come in molte altre parti del Chianti, si intensificarono nei giorni del passaggio del fronte e della Liberazione, provocando numerose vittime tra la popolazione civile, come i quattro innocenti che abitavano al Mulino della Volpaia e che Lina vide trasportare, ormai dilaniati, su un carro in direzione del cimitero.

     

    Ed è proprio dai quei giorni di guerra che Lina ricostruisce in maniera lucida e circostanziata una vicenda che rivela il sapore genuino e semplice della solidarietà contadina chiantigiana, impressa a memoria anche in una cornice nel mitico “Bar-Ucci” di Paola e famiglia situato all'ingresso del borgo di Volpaia.

     

    Alcune famiglie sfollate da Livorno erano infatti giunte alla Volpaia per cercare il rifugio e il lavoro che la città portuale, pesantemente bombardata, non poteva garantire.

     

    Carlo, Irma e Sandro i nomi dei bambini della famiglia Bertoli che trovò dimora nelle stanze di Casa Selvolini e che si integrò bene con i circa 300 residenti di Volpaia, "nonostante che all'inizio – ci dice sorridendo Lina – stessero un po' sulle scale", ovvero con qualche atteggiamento altezzoso, per rimarcare il loro status cittadino.

     

    Un po' più problematici, anche per comprensibili ragioni di “diffidenza preventiva” nei loro confronti, furono invece i rapporti con le truppe partigiane che battevano il territorio e i boschi della zona di Pian d'Albola.

     

    L'apice della tensione fu raggiunta una sera, quando da una sollecitazione ad andare a letto che un partigiano rivolse a un “livornese”, scaturì la risposta risentita di quest'ultimo: "Dè, 'un son mica un pollo", nel segno del miglior spirito labronico.

     

    Dalle parole ai fatti e la discussione accesa si trasformò quasi in tragedia: dopo qualche spinta, partì uno sparo da un’arma da fuoco che però e per fortuna non produsse più di qualche ferita, subito curata dal prete-medico Don Silvio Bruschi.

     

    Rientrato e opportunamente gestito l'incidente nell'interesse di tutti, c'era da pensare ad altro: i partigiani a continuare a lavorare ai fianchi gli occupanti nazifascisti con le operazioni tattiche necessarie a favorire l'avanzata degli Alleati; “i livornesi” a svolgere mansioni e lavori in loco per la propria sussistenza, restandovi poi per anni e intessendo anche relazioni familiari.

     

    Così, il matrimonio tra Carlo Bertoli e l'autoctona Teresa Selvolini finì per suggellare il legame speciale che si era creato in quegli anni difficili tra la piccola frazione di Volpaia e le famiglie ospiti di Livorno.

     

    E come la storia di Casa Selvolini pare racchiudere ed esprimere l'avvicendamento dei secoli nel borgo di Volpaia, così “nonna” Lina sembra interpretarne l'anima più vera. 

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

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