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venerdì 19 Aprile 2024
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    Una foto sulla parete della casa del popolo. E un pensiero rivolto ai nostri figli

    Apprezziamo quanto di buono ci danno gli strumenti digitali (perché, ovviamente, ce n'è ed è tanto). Ma ricordiamoci (e trasmettiamogli) la bellezza dell'essere analogici

    Lo so. La pandemia non è finita.

    E c’è una guerra che ci fa star male solo a pensarci. Che vede morire a centinaia, migliaia, ogni giorno. Vite sventrate. Case sventrate. Occhi sbarrati.

    Come in tante altre guerre: del passato, del presente. E del futuro. In un aberrante circolo vizioso nel quale le persone sono, come sempre, carne da macello.

    Una congiuntura internazionale che si riflette sulle nostre famiglie, sulle nostre vite, con costi che salgono oltre ogni soglia mai pensata.

    Mi dovete scusare, ma non parlerò di questo. Molti, più competenti di me, lo stanno facendo da giorni, settimane.

    Vorrei invece far due chiacchiere con voi partendo da questa foto, che ho visto mentre stavo aspettando che mia figlia uscisse dalla lezione di danza, alla casa del popolo di San Casciano.

    Per fare una riflessione che mi ronza in testa quotidianamente. Che vorrei condividere con voi. Fatene, ovviamente, quel che riterrete più opportuno.

    In un pannello, chiamato RicordArci, tante immagini che mi hanno emozionato, molti volti che non ci sono più.

    Poi, in un angolo in alto a destra, questa foto (e ringrazio da qui chi l’ha scattata).

    E’ la vecchia sala giochi, quella che era stata costruita al posto del vecchissimo “pallaio”, quello dove andavo a vedere mio nonno che giocava.

    O, più spesso, a vedere mio nonno che a sua volta andava… a vedere giocare.

    In foto ci sono alcuni dei miei amici. Io non sono ritratto, ma è come se lo fossi. Magari ci sono pure, fuori dall’inquadratura.

    Il tavolo da ping pong. I videogiochi. In molti hanno il “bomber”. Io ne ho avuti due, uno verde militare e uno blu.

    E’ una foto che ci racconta tempi comunque “moderni”, siamo più o meno a inizio anni Novanta. Ma tempi comunque, ancora, analogici.

    Niente internet, che era agli albori. Niente cellulari. E niente, quindi, combinazione delle due cose. Ovvero il vero e grande spartiacque fra un “prima” e un “dopo” (e, badate bene, lo scrivo qui, su un quotidiano online…).

    Non è neanche, o almeno non vorrei che fosse, un discorso nostalgico, che quelli come me, fra i quaranta e i cinquanta, iniziano a fare sempre più spesso. Per poi accelerare in modo esponenziale dopo aver compiuto mezzo secolo.

    E’ una foto che mi fa pensare, appunto, al “mondo analogico”. A quello che la generazione precedente alla mia ha conosciuto fino a quando ha avuto i figli grandi.

    Che la mia, di generazione (sono nato nel 1976), ha vissuto appieno fino all’età adulta.

    E che mi fa andare all’oggi, al mio essere genitore, babbo, di una figlia di sette anni. 

    Alla mia unica, vera e grande certezza, in un caleidoscopio di normali (e comprensibili) incertezze quotidiane.

    Ovvero di togliere per quanto più tempo si riesce pc, tablet e cellulari dalle mani dei nostri figli. Così come i telecomandi dei televisori, che ormai sono vere e proprie piattaforme e non flussi unidirezionali come un tempo (ovvero, si accende e si guarda quello che c’è).

    Il motivo è semplice. Quel dito sul telefono, sul tablet, sul pc, sul telecomando, quel solito gesto ripetuto su più strumenti, implica un unico percorso mentale che si stratifica. Giorno dopo giorno, clic dopo clic.

    Che tutto, appunto, sia a portata di dito. Che non ci sia da annoiarsi. Che non ci sia da “faticare” per fare una ricerca per scuola. Che si esca solo “a colpo sicuro”, dopo aver fissato in chat con gli amici o le amiche. Che si possa vedere quel che ci piace, quando e come si vuole.

    Che per ogni cosa ci sia una risposta raggiungibile facilmente, “distante” pochi millesimi di secondo. Clic.

    Noi che abbiamo fatto i mercatini davanti alla porta di casa con i vecchi fumetti. Che abbiamo giocato (e quanto accanitamente) con i tappini dei succhi di frutta. Che il nostro campo da gioco non era quello da calcetto, fissato dalle… alle… ma parcheggi con molte meno auto di oggi.

    E poi i motorini, il Ciao, il Sì, o l’emozione del primo scooter. Tutte cose che sono nei nostri ricordi, nelle nostre menti, con qualche foto qua e là, rarissima, scattata chissà da chi e stampata chissà come.

    Noi che… (potrei andare avanti all’infinito) abbiamo un grande privilegio, che diventa anche una grande responsabilità. Siamo cresciuti a cavallo di questa grande rivoluzione, venendone (spesso) a nostra volta travolti.

    Ecco, oggi fermiamoci. Riflettiamo sempre un secondo in più. Apprezziamo quanto di buono ci danno gli strumenti digitali (perché, ovviamente, ce n’è ed è tanto). Ma ricordiamoci la bellezza dell’essere analogici.

    E, per quanto possibile, cerchiamo di farne scoprire un pezzetto anche ai nostri figli.

    @RIPRODUZIONE RISERVATA

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