TAVARNELLE (BARBERINO TAVARNELLE) – Quella che abbiamo l’onore di ospitare è una storia scritta con testa e cuore.
E’ una storia che parte da una cosa semplice, da un frutto dell’estate, da un fico. E’ la storia di un figlio che riflette sul suo rapporto con la madre.
Questo figlio è Fabrizio Silei. Scrittore, creativo (lo potete seguire qui su Facebook), nato e vissuto a Tavarnelle, adesso vive altrove.
Ma a Tavarnelle torna. Anche e soprattutto per trovare la madre.
Leggendo queste righe ci siamo commossi, e abbiamo pensato che fosse giusto che raggiungano il maggior numero possibile di persone. Buona lettura.
MASTICARE LENTAMENTE, MIA MADRE E I FICHI
Ieri sono stato a trovare mia madre che ha 88 anni e vive sola. Siamo stati bene. Non è sempre così.
Non ci vado spesso perché è lontano, almeno così mi dico. Quando ci vado alle volte è come se non ci andassi, se fossi lì senza essere lì nonostante la gentilezza o gli abbracci mi stanco presto e smetto di ascoltarla davvero, di vederla davvero.
Lei lo sente, allora, come un bambino che esige che si giochi con lui, diventa più lamentosa, petulante. Chiede di essere vista, vista davvero nella sua unicità e nella sua meraviglia di persona, anziana, ma viva. Parla, parla, parla.
Perché succede? Perché di solito presumo di sapere già ciò che ha da dire: lamentarsi dei suoi mali, riferire qualcosa che ha sentito in televisione o qualche evento di vicinato, solitamente luttuoso o spassoso, poco più…
Quel nostro tempo insieme diviene allora un tempo di attesa, un tempo vuoto in cui io mi distraggo accendendo la Tv, leggendo un libro, o armeggiando al cellulare.
Quando faccio così mi comporto come se lei fosse già morta, ma anche io lo sono, per tutto il tempo in cui rimango lì senza essere davvero lì. Un pezzo di vita non vissuta, di essere senza essere.
Poi io non me ne sarò accorto (viviamo così distrattamente) e lei se ne lamenterà con mio fratello: “È venuto, ma era sempre al telefono con qualcuno, non ti ascolta nemmeno”.
Ha ragione, la sua vita rischia di trasformarsi in risentimento giacché nessuno la vede e nessuno l’ascolta più da anni: non il medico che infastidisce, non i vicini di casa che la salutano appena, non noi figli e i nipoti.
Se la solitudine è sopportabile non lo è altrettanto lo scoprirsi soli in presenza degli altri e dei propri cari. Verrebbe da dire che il suo stare male, lamentarsi dei dolori, è forse solo questo: la disperata richiesta di un essere che vuol essere visto, considerato, ascoltato.
Da bambino sognavo di diventare medico per curare la mia mamma incurabile, quindi non è da un giorno che è così e non dovete pensare che la mia apparente insensibilità non venga da una vita di scontro e confronto con il suo male, divenuto a stagioni alterne il mio, la mia ipocondria, fino al superamento attraverso la fuga, un grande lavoro, e così via… .
Forse non ascoltarla è stato per tanti anni anche il mio modo di provare a sopravvivere senza diventare lei.
Come quando i bambini si tappano le orecchie e fanno bla bla bla per non sentire le cose che appaiono loro insopportabili.
Ma il tempo passa, le stagioni trascorrono, si cresce, si va avanti sant’Iddio. Le cose possono cambiare.
Quando viene mia moglie mia madre è contenta perché lei è costretta ad ascoltarla. La sfinisce allora con richieste d’attenzione, domande, racconti. Rifiata.
Ieri però non è stato così, sono andato a trovarla, a trovare proprio lei, da solo. Ho spento il cellulare, non ho accesso la Tv, non mi sono portato libri da scrivere o da leggere, sono andato lì per lei.
L’ho ascoltata guardandola negli occhi, premuroso, gentile. Non per finta, ma davvero. Ero lì. Ho sorriso molto, il sorriso è il mio rifugio e il mio maestro oramai da tempo.
E così ieri siamo stati insieme, abbiamo cambiato una lampada fulminata con lo scaleo, abbiamo fatto spesa, siamo andati al cimitero, dove bagno sempre le piante delle tombe degli altri, quelle abbandonate o sofferenti, con lei che si lamenta e che mi dice che non si può, che non vogliono!

“Chi non vuole? Le piante o i morti?” Abbiamo riso. Tornati a casa lei a un certo punto, quando ha capito che non sarei scappato, che miracolosamente ero lì con lei, per lei, e l’ascoltavo, si è tranquillizzata.
Ha parlato tanto, pacatamente. Gli occhi da bambina furba, le risa, i racconti del passato degni di Čechov. È lei che mi ha insegnato a raccontare quando ero bambino, come posso averlo dimenticato?
Perché ricordiamo soprattutto il male e tendiamo a dimenticare i doni? Non si è più lamentata dei suoi mali per tutto il tempo, poi mi ha detto di andare a cogliere i fichi nell’orto lungo la scarpata: cosa divenuta troppo pericolosa per lei.
Mi ha dato una camicia di babbo con le maniche troppo corte. L’ho fatto, ce n’erano tanti, ma non li ho colti tutti: ne ho lasciati qualcuno anche se maturo per le api e le vespe, poi sono risalito prima che le zanzare mangiassero me.
È stata contenta che ci fossero i fichi. Ne avrei mangiati cento, giacché un fico tira l’altro, come dice il proverbio. Ma se si ha il bisogno di mangiare dieci o cento fichi forse è perché non ne gustiamo nessuno.
Invece ne ho mangiato solo uno: grande, maturo, rosso come un rubino e in qualche modo conturbante. L’ho masticato a lungo, lentamente, con voluttà.
Era fantastico. Ero lì, ero vivo e anche lei era lì con me, ed era viva. Una persona brillante, simpatica, una bambina nonostante l’età.
Siamo stati felici. Ho detto grazie per il fico e per mia madre. Forse allora è possibile rallentare, vedere e vedersi, ho pensato, ascoltarsi, non gettare la vita che abbiamo assaporandola, masticandola lentamente con consapevolezza e gratitudine.
Ieri ce l’ho fatta, oggi chissà, dipende solo da me, da noi. Oggi potreste provare a vedere davvero qualcuno, magari la vostra anziana vicina, e a fermarvi a fare due parole o una gentilezza (portarle tre pere o un pezzo di dolce, fermarvi due minuti per un saluto, chiedere un consiglio su un piatto…).
Mi fareste un gran regalo e lo fareste a voi stessi. Grazie e buona giornata.
P.S. La foto è di qualche anno fa, quando i fichi se li coglieva da sé.
Fabrizio Silei
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