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martedì 16 Aprile 2024
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    Coppie del Chianti, vite intrecciate: a Montefioralle la storia di Bruno e Raffaella

    Storie semplici, di persone del nostro territorio: che in questo caso si dividono fra i ricordi della guerra, del passaggio del fronte, degli anni del boom economico, della vita... insieme

    MONTEFIORALLE (GREVE IN CHIANTI) – Bruno Vegni e Raffaella Lapini si sono fidanzati nel 1958, e si sono sposati nel 1963. Quest’anno saranno 59 anni di matrimonio.

    L’11 gennaio scorso Bruno ha spento 88 candeline; Raffaella, il 5 aprile, soffierà su 82. La coppia vive a Montefioralle, dove risiede insieme dal tempo dei loro… fiori d’arancio.

    Nelle nostre storie delle coppie chiantigiane, che ci raccontano chi siamo e da dove vengono le nostre famiglie, ecco la loro. Semplice e splendida.

    Raffaella e la sua famiglia erano contadini. Da bambina andava a scuola, ma nel pomeriggio usciva insieme agli altri bambini a portare fuori le bestie, i compiti li facevano la sera tardi.

    Nel periodo del granturco andavano a raccogliere quello, poi c’erano i mesi della raccolta della frutta. Raccoglievano anche i semi di zucca. Raffaella racconta che al tempo “passava un signore dell’Impruneta a comprarli, un treccone”.

    Da più grandi, lei e gli altri ragazzi hanno poi iniziato ad andare nei campi, quindi a fare la segatura del fieno.

    “Un po’ tosta – dice Raffaella – ma bella e ricordata oggi con affetto, perché potevano mangiare nel campo”.

    Allora la vista era ancora buona, la sera ricamavano. A fare i rammendi, a ricamare, Raffaella l’ha imparato a scuola. Da grandi, poi, insieme ad altri ha cominciato a venire da Montecalvi, dove è nata, a Greve: a piedi o con le biciclette.

    A Greve facevano la classica passeggiata, dal Borgo alla chiesa, alla casa del popolo. Qua la possibilità di incontrarsi con qualche ragazzo: ed è qua che Raffaella ha conosciuto Bruno. Lui al tempo faceva il camionista.

    In inverno non c’era molto da fare. Le persone tendevano di più a passare il tempo in famiglia o con i vicini, magari giocando a carte, a tombola, facendo le bruciate sul fuoco.

    Quando c’erano lavori da svolgere il tempo passava più velocemente. Un evento aspettato con gioia era quello della battitura del grano, momento di grande divertimento. Alla sera, intorno al fuoco, le persone cantavano insieme e si raccontavano storie.

    Una canzone, provano a ricordare i due coniugi, era questa.

    “Grano, grano non carbonchiare

    L’ultima sera di Carnovale

    Siam venuti a luminare

    Tanto al piano, tanto al poggio

    Ogni spiga ne faccia un moggio

    Un moggio e un moggiolino

    Ogni spiga un panellino”

    Da un fuoco all’altro urlavano, richiamando l’attenzione degli altri, seduti a loro volta intorno ad altre “focose”.

    Allora, ricordano i due, “eravamo più poveri come soldi in tasca, ma più uniti al resto della comunità, un qualcosa che oggi si è molto perso. Vi era più senso dello stare assieme, nonostante gli scherzi e i dispetti, che comunque erano percepiti in maniera molto più giocosa e leggera rispetto ad oggi”.

    Anche Bruno era un contadino. Ricorda come il cibo bastasse “preciso per mangiare”. Poiché, a raccolto ultimato, metà grano lo prendeva il contadino, metà la fattoria: in questo caso specifico quella di Uzzano.

    I ragazzi facevano i “blocchi di nocione” per fare i cesti per le damigiane, che poi portavano a Greve, “quando con i bovi dalla Rimbecca portavamo le bestie in paese. Per tornare poi indietro, al buio, con le candele accese”.

    Oppure, ci racconta quando “con un corbello andavamo a battere le bacche di ginepro che poi vendevamo, e che venivano usate per fare i profumi”.

    Si ricorda di quando scendevano in paese a ballare, oppure andavano a Panzano, a Radda, a Lucolena.

    Dopo aver fatto la scuola guida, ha iniziato a fare il camionista. Poi ha fatto il militare. Tornato dalla leva, ha fatto diversi lavori nei campi, per poi ricominciare nel 1958 (fino al 1993) a fare il camionista. A Testi, per quel cementificio che oggi non c’è più.

    I due, come detto, si sono conosciuti a ballare alla casa del popolo. Si sono fidanzati, poi sposati. Dopo un anno dal matrimonio, nel 1964, è nata Luana, la prima figlia.

    Bruno ha continuato con la professione di camionista a Testi, Raffaella era casalinga, rimaneva a casa a occuparsi delle bambine, che nel frattempo erano diventate due (era arrivata anche Rosaria), e dei suoceri.

    Via via che le bambine crescevano, Raffaella faceva vestiti a casa: l’ultimo lavoro che ha svolto è stato “per Pitti, cucendo i campioni per vestiti da bambini tramite un’agenzia”.

    Quando Bruno è andato in pensione ha comprato un pezzo di terra, Raffaella ha continuato ad occuparsi della casa e della famiglia; le figlie hanno frequentato le scuole a Greve.

    Nel 1977 Raffaella si ammala gravemente. Rosaria ha sette anni, Luana quasi diciassette. Il marito si divide tra il lavoro e l’ospedale di Careggi. Raffaella si sottopone all’intervento, poi alle terapie; che durano un anno e sono molto, molto forti.

    Ma superano anche questa. E oggi, dopo tanti anni, tanti acciacchi (Covid incluso) sono ancora insieme. Sorridenti.

    Greve, secondo loro, non è cambiata molto. Forse c’è più vita rispetto a quando loro erano giovani. Un’occasione per uscire, almeno per Raffaella, era recarsi alle funzioni religiose.

    La sua fortuna per uscire la sera era poter contare su suo fratello, che aveva un motorino: così da Montecalvi a Greve era più veloce. 

    Ora Greve “è collegata molto meglio con Firenze e gli altri paesi intorno, un qualcosa che prima non c’era”.

    “Inoltre – riflettono – rispetto ad ora, i negozi probabilmente erano molti di più, anche perché le persone si recavano soltanto nel proprio paese a comprare il necessario, a differenza di adesso”.

    E ricordano che “c’era, ad esempio, la Cooperativa. Prima al Castello di Montefioralle, poi a Sant’Anna, infine spostata alla Stazione”.

    “Io – ci dice Raffaella – sono andata a Firenze la prima volta a sette-otto anni. Ci sono andata con la mia mamma. Ero emozionata. Ora andarci è senza dubbio un qualcosa di molto meno… eccitante, rispetto a prima”.

    Anche la comunità del Castello di Montefioralle prima era molto più viva e vivace: le donne si riunivano per le strade per ricamare, mentre i bambini piccoli giocavano. Nell’inverno andavano in una piazzetta “baciata” dal sole.

    “Prima era come se fosse tutta un’unica grande famiglia” dice la coppia. Andavano, letteralmente, tutti a dormire con la chiave nella porta. C’era il circolino in cui gli uomini andavano sera. C’era la festa delle frittelle, delle pappardelle.

    Bruno dice che “per la festa delle pappardelle, le persone arrivavano persino da Bologna!”.

    Della guerra, Raffaella ricorda che ad un certo punto si sono spostati a La Ripa, lasciando in paese gli animali. Vennero mangiati solo i polli perché… “tanto moriremo tutti, almeno i polli mangiamoli”, dicevano le persone.

    La guerra, dicevamo. Raffaella rammenta quel giorno in cui la mamma stava tornando a casa per prendere delle cose, e un aereo sganciò una bomba.

    La buca provocata da questa è rimasta fino a poco tempo fa nel campo dove è caduta: veniva chiamato il “campo della bomba”.

    Quando tornarono a casa iniziò il periodo in cui dal Castello di Montefioralle (e da Greve in Chianti) passavano gli americani.

    Uno di loro, John (che fu subito ribattezzato Giovanni), aveva la cioccolata e giocava con i bambini.

    “Sulla strada provinciale – a parlare è ancora Raffaella – trovai una bomba a mano inesplosa. Ci stavo giocando, usandola come bastoncino, quando uno degli americani la vide e me la tolse di mano, probabilmente salvandomi la vita”.

    Bruno era più grande al tempo della guerra. Faceva il contadino alla Ribecca, aveva dieci anni circa. Si ricorda di come, dalla parte di Panzano, al passaggio del fronte, arrivassero le cannonate, che distrussero parte della sua casa.

    “I tedeschi – ci dice – infastidirono alcune donne, picchiarono alcune persone, portarono via alcuni uomini. Il mio babbo e altri uomini erano nascosti nel bosco, tornavano a casa per i pasti”.

    Un giorno Bruno era seduto vicino alla concimaia di casa. Nel borro sotto, alcuni giovani si recavano a fare il bagno; probabilmente alcuni tedeschi li videro e spararono delle cannonate. La prima non centrò il punto, ma finì a pochi metri da Bruno. La fortuna volle che vi fossero una grande pianta di salvia e un muretto, che attutì il colpo.

    Bruno si ricorda ancora il gran fumo e il volo che ha fatto: “Se non ci fosse stato il muro non sarei qua a raccontarlo”.

    Oppure rammenta anche quando il suo babbo scappò dai tedeschi, mentre gli sparavano addosso.

    “Mio babbo era una molla allora – sorride infine al ricordo – quando lo rincorsero, in tre salti girò la casa, passò l’aia e arrivò ai campi, e svanì. Per paura dei partigiani, i tedeschi non si avvicinarono al bosco. Così andarono via: e lui si salvò”.

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